Melsina
Una tipetta croccantina
Filo su Ci vuole coraggio a lasciare i cadaveri al fiume, mentre si cura a mano il proprio vivere.
[Nasciamo, per così dire, provvisoriamente, da qualche parte ]
soltanto a poco a poco andiamo componendo in noi il luogo della nostra origine, per nascervi dopo, e ogni giorno più definitivamente.
Rainer Maria Rilke
Sui meli si sa sempre dire di tutto, non è vero? anche con una certa arroganza. Si dice sempre le sue mele si assomiglino tutte e che cadano solo vicino al proprio tronco maestro.
C’era una volta un melo.
Un melo classico, immaginatevelo bello e austero. Un bel tronco marrone, una chioma ordinata, una sedietta di fieno sotto i suoi rami per godere della sua ombra.
Questo melo era un bellissimo melo per l’appunto.
Chiunque lo descriveva. Viveva sugli abbecedari, su tutte le riviste agricole, sui disegni dei bambini, i poster nelle scuole, eppure la sua chioma aveva un potere talmente totalizzante sulle altre specie della campagna e sulle sue stesse mele, che non faceva crescere niente né di sotto e nemmeno attorno a sé, neppure le erbacce. Il terreno, se lo guardavi bene, sembrava sterile. Ma nessuno ne parlava. Tutti ne ammiravano le gesta. Aveva una sorta di aura intoccabile e innominabile. E come se tutt’attorno al tronco ci avessero gettato della candeggina. Pietre e sabbia se la giocavano per il posto migliore, ma alcun filo d’erba si permetteva di crescere.
E le mele?
Le mele che cadevano non attecchivano. Deperivano dai temporali, si scioglievano nel gelo, o venivano rosicchiate dai bruchi, dai ricci di passaggio. Mele splendide, lucide da sembrare dipinte.
Dipinte da sembrare intoccabili. Tutte verdi. Di generazione in generazione, sempre verdi. E intoccabili. Acide, viperose, secche e dal sapore estramamente accattivante.
Un giorno di maestrale il polline di un fiore di susino rimase appiccicato al naso di una farfalla che, dopo un lungo viaggio, senza forze, si lasciò morire sul melo perfetto. Da quella morte nacque uno strano fiore, che pian piano si fece frutto, spezzando la catena determinata di perfezione di quelle mele meravigliose, moribonde di paura e senza voce.
Fu una vera tragedia, un affronto senza eguali, lampi e fulmini e diluvi si susseguirono per lunghe settimane, settimane che si fecero mesi, e poi anni, le lattughe indignate se ne andarono in un altro orto, le mele invidiose si stracciavano le vesti nel vedere quel bitorzolo lillà sul ramo più sottile farsi un corpo, e tifavano perché cadesse e morisse come tutte loro. La loro vita si giocava nel silenzio e nella buccia, fino alla prima ventata di libeccio.
Melsina no. È così che si fece chiamare. Melsina pareva resistere a tutte le folate, le ghiacciate, il caldo torrido e le cornacchie. Dal suo ramo vedeva tutto il bene e tutto il male del mondo intrecciarsi, senza che potesse fare niente. E questo a lungo andare la stancò.
Tutti sottovalutarono il fatto che lei fosse nata da uno sbaglio, da un incrocio, da un vento austero in un giorno di marzo freddo. Tutti sottovalutarono la sua voce.
Così un giorno che non ne poteva più guardò le altre mele distinte, si morsicò il picciolo, e si fece cadere senza paracadute, anche a costo di morire.
Si fece male. Anzi, malissimo. Ma ne valse la vita.
Aveva spezzato la catena d’odio, di morte e distruzione, eretica e ribelle. Aveva provocato la morte dell’albero che per ripicca le strappò la buccia. E si spezzò in due lasciandosi morire.
Il giorno del volo Melsina non lo sapeva che quello significava sopravvivere, nella disperazione del suo gesto era certa solo che sarebbe voluta essere come tutte le altre mele e lasciarsi morire anche lei, morire con il melo e con tutte le altre mele spettatrici. Il meleto tutto per stagioni intere prese a lanciare su di lei fionde di pietra anche da lontano per partito preso e accordo con altri meleti. Nel suo andare via, senza poter fare niente di meglio, decise di trascinarsi dietro tutto quel male, di portarsi tutto il cadavere dell’albero con sé. Ci mise molto a farsi crescere la buccia.
Non lo seppe nemmeno dopo, che quello, significava provare a vivere.
Lo scoprì molto dopo, quando si distrasse, in un momento di cura al suo nuovo picciolo, il cadavere del melo tenuto stretto per anni venne portato via dal fiume che scorreva lì accanto. Fu dolore e fu sgomento. Ma inevitabile. Non poteva più tenere quel peso al collo. Non c’era più spazio.
Melsina costruiva muretti con le pietre delle fionde delle altre mele e di tutti gli altri frutti, e con le bucce lanciate sul muso si faceva ogni giorno le sue ginocchiere. Una foglia solida di lauro se la legò forte al picciolo, per volare nel vento di un colore tutto suo. Uno croccante di susina fredda.
Una melsina d’inverno.
Perché la varietà salva davvero.
Perché non tutte le mele cadono vicino all’albero, alcune sono capaci di cadere vicino e crearsi una polpa lontano, e altre di lasciarsi cadere nel vento pur di salvare il meleto intero da un treno improvviso, le mele, viste da lontano possono sembrare tutte uguali, ma molte di loro, anche simili, possono non avere niente a che fare tra di loro e col proprio albero. Ci sono tanti perché, tanti come, tanti incroci e tanti venti da tenere in considerazione. E nessuno ne tiene conto davvero. Nemmeno le mele stesse.
E non averci niente a che fare, no, se non forse nelle sue parti migliori. Quelle vive.
Quelle sopite dalla consuetudine e dal tempo, per poterle svegliare e incontrare la vita.
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