Dorina
Una tipetta piccolina
Filo su abbaio disperato, dietro al cancello. Quello di casa mia
Sarà amore quando mostrerai tutta la tua collezione di fragilità, traumi, idiozie fragole ammuffite scivoloni su pasta scotta e spinacine bruciate, senza che l’altro le possa utilizzare quando perde la ragione, per farti del male.
E lasciarti abbaiare
Fino ai tre anni non vidi essere umano.
A meno che non fossero i miei genitori, la madre di lui, credo, e mio nonno, e il giardiniere. Il signor P.
Passavo le giornate tra le lattughe, i mandorli, la terra, le oche aggressive, i cetrioli, le zucche. I narcisi. I carrubi.
Che meravigliosa bimba bucolica, penserete, immersa nella gioia farfallesca di un paradiso che tutti i bambini sognano, per la loro infanzia.
E poi gatti, gatti, gatti a mazzi, e galline a profusione.
Cani a banchi. Banchi di cani. E ancora cani. E gatti e cani.
Che meraviglioso presente bucolico per Dorina, una bimba piccina piccina, biondina, con i pomodori al posto delle guance e le olive nere al posto degli occhi. E due fichi grossi grossi come polpacci.
Il vestitino di foglia e una primula rossa per bocca.
E i cani, non dimenticate mai i cani.
Fino ai tre anni non vidi essere umano. Vivevo coi peluche. E i peluche veri.
Fino ai tre anni gli unici esseri umani erano esseri poco umani, fragili e distrutti. Non vidi nessuno. Se non loro. Come esempio di silenzio e dolore. Rancore.
Fino a che il nonno non è morto. Tra le mie braccia, e una macchinina azzurra a forma di camper rimase sola.
Sul cuscino bianco dell’ospedale. In un giorno di maggio.
Presi il suo posto, cosicché i pilastri del castello non crollassero tutti su se stessi schiacciandoci tutti.
Avevo tre anni e non avevo mai interagito con essere umano che non fosse loro. Una manciata di adulti sfatti dalla vita.
E poi i cani. Ho preso in prestito il loro cuore e la loro coda dall’amore prosperoso. Grandi scodinzolate alla vita. Ero minuta e magrolina, piccoletta, pelata sino ai due anni, e col cuore prosperoso.
L’avevo imparato dai cani.
Insieme all’abbandono punitivo, e la malinconia dei loro occhi.
Poi diventai un bambino.
Che poi, voglio dire. Se lasci un cane appena addomesticato, abituato ad essere legato al palo per le vacanze, abbaiare disperato per giorni, al cancello, con te dentro, al freddo, al caldo, senza acqua, né cibo..
Come mandi l’accalappiacani ad aprire il cancello, mentre tu sparisci per sempre, a tuo piacere, dopo giorni di abbaio, quando decidi tu, per rilegarlo al palo con un addio freddo e senza dolore, dopo aver vissuto accanto a lui giorno e notte, cosa vuoi che accada?
C’è un limite a ogni cosa.
E le fragilità, quella preziosa, la nostra, non può essere usata, a piacere da chi dovrebbe amarci, per vedere come va. Se sai che ciò che fai esacerba dolore recondito, sapendo cosa può provocare, lasci abbaiare il tuo cane per giorni dietro il cancello? Non siamo una messa alla prova. E nessuno deve avere la possibilità di trattarci da cani in abbandono.
Perché poi, se morsichi, la colpa è la tua. Mica la loro.
Avevo quattro anni e vidi per la prima volta dei miei coetanei. Finsi di schiacciarmi il dito nella panchetta della mensa, perché mi mancava la mamma. Ma non potevo darlo a vedere. O essere come tutti gli altri bimbi, fragili, piccoli. Perché io non piangevo.
Dorina non piangeva mai.
Aveva il cuore di cane.
E il sale negli occhi.
Ma non poteva darlo a vedere.
Mai. Perché ha vissuto da bambino. E i bambini si sa, non sbagliano mai.
Però Dorina era una donna. Sin da piccolina.
Ma nessuno glielo aveva svelato.
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