Mio figlio, non è una colla stick
E neanche un pongo
Filo su secchiello e paletta,
all’orizzonte la mia nave si è spostata
Mio figlio non è nato per salvarmi
Per capirmi
Riscattarmi
Compiacermi
Mio figlio non è nato per me
Per il mio ego
Per le mie sconfitte e le mie vittorie prescritte
Mio figlio non è nato per votarsi al mio credo
Al mio pensiero
Mio figlio non è venuto al mondo
Per risuonare la mia voce il mio corpo le mie velleità di bambino
Mio figlio non è il senso della vita mia
Ma della sua
E di ogni sua preziosa sconfitta
Mio figlio non è nato per occuparsi di me
Per consolarmi
E forse, nemmeno per amarmi
Perché in quella famiglia la mia migliore amica, ride?
Allora vai nella loro, risposero.
Così restai a cambiare la mia.
Avevo iniziato a scegliere, e per questo non mi davo pace.
Non avevo realizzato la vita per me pensata e non mi sentivo di meritarne alcuna diversa da quella che non era andata. Sentita fallita.
Preziosa luminosa sconfitta.
Che il mio corpo non aveva voluto, gridante gnomo inascoltato.
Ogni scelta doveva essere uccisa, distrutta, e penata, e smontata, e pentita perché non colmava l’idea di bellezza e perfezione che avevo fallito agli occhi degli altri, dell’altro dei miei altri, di quegli altri.
E non mi meritavo altra possibilità.
Altra vita.
Di avere successo nel mondo, il mio, in un’altro emisfero, il mio, in un’altra metà. Conquistata.
Non mi prendevo abbastanza sul serio. Quel che sentivo non era mai abbastanza, e giusto, e serio.
Solo perché mio e trovato da me.
Perseguivo.
Ma la mia nave si era spostata e c’era un pezzo di orizzonte che prima non vedevo.
Non si poteva far finta di niente.
A scroscio, come diluvio, la pretesa dirompe nelle ossa.
A scroscio, come applausi, apre le strade, sfonda le porte su discese pericolose. Ci vuole poco perché non diventi un torrente in piena senza freni, stracolmo di detriti e buoni propositi, resistenza, dolore per niente parolabile.
Abusare dei propri figli, dei bambini, dei ragazzi, delle creature con cui abbiamo a che fare, per l’ideale che abbiamo nella nostra mente è fare loro violenza. E spesso, è tra le più ben confezionate, tra le più deleterie e collaudate: togliere la vita a qualcuno che vogliamo come noi. Togliere la vita, per spostarla su di noi. Abusare dei piccoli fisicamente, psicologicamente, umanamente, del loro tempo, dei loro anni, della loro anima e del loro sentire, in nome di qualcosa – anche meraviglioso -che abbiamo in mente, non è meno violenza di altre.
Per quanto alto e splendido sia il nostro obiettivo non è la nostra vita, di cui di solito tendiamo a occuparci poco.
I nostri figli non nascono per tenere insieme i pezzi che non siamo stati in grado di incollare di noi, del nostro tempo, della nostra vita. Violenza è sfruttarli nel corpo e nella mente per perseguire la nostra egoistica forma di bellezza, togliendo loro la possibilità di scoprire la loro particolare forma di espressione. Metterli in grado di volere la loro.
Perché trovino la loro.
Viva dio se non condivisa.
Dare all’altro lo spazio e il tempo, l’entusiasmo di capire, mettere l’altro in condizione di esprimersi per articolare il desiderio, ciò che ha da dire. Magari non capirlo. Meglio così. È questa la più alta forma di bene e libertà per un bambino. La nostra presenza. La nostra costanza
Qualche sentiero. Un giaciglio. Forse una via, un esempio. Molto poco, eppure sufficiente a bastare per la vita.
Non la nostra ossessione.
Il tempo non torna indietro.
Nemmeno la vita dei nostri figli.
I bambini, i futuri adulti con un vocabolario senza la voce sul puoi sono condannati a vedersi morire, a vivere le vite degli altri, fino a quando non si ribelleranno da soli.
E non sempre accade.
Non sempre si può.
Non sempre si riesce.
Mio figlio non è una colla stick. È una scoperta continua in costruzione, carne viva, mente di stelle e noia e scalpore, spiaggia infinita di cui sono un piccolo secchiello e una paletta, che può usare, gettare lontano. Scegliere. Sbagliare. Lasciare.
Mentre io resto, ma io resto, noi restiamo.
Col cuore sfranto, felice, rattristato, orgoglioso e due braccia piene di solidità. Perché di me me ne occupo io. Basta poco per amare. Un paio di orecchie sturate, e occhi attenti per guardare.
Una voce, anche se stanca, per proteggere e amare senza mai rinfacciare.
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