Diana
Nessuno che ti punisce, esiste
Filo su vasi rotti e macerie. A un certo punto
tutti abbiamo bisogno di proteggerci.
E scoppiamo, come non riusciamo.
I bambini che non sono riusciti a salvare i propri genitori dalla morte si assomigliano un po’ tutti. Soffrono tanto. Perché pensano di essere onnipotenti. La morte ha tanti volti, alcune facce sono segregazioni, altre schiavitù, altre ancora crocifissioni e muri di silenzio.
Porte sbattute e conseguenze.
Non sapevo più granché. Ero stanca, sfinita, di dimostrare eccezionalità ed essere presa a schiaffi dalla vita che quelle persone dicevano di voler condividere con me, per salvarsi dal loro passato. Di dimostrare integrità e saggezza. La colpa mangiava le membra, perché non sei abituata a sbottonarti, perché poi le persone, non se lo aspettano, che sei capace se vuoi, a rispondere. Pensano che il loro male non porti mai conseguenze. E non se lo vogliono sentire dire e non lo vogliono vedere, lo schifo che sono, e lo schifo che fanno. Sante e perbeniste. Un secondo prima sei la loro vita, la ragione, il senso. E tu ci credi. Credi a tutto. Poi il nulla. E il nulla ci sta. Ma manca sempre di civiltà.
E lì devi stare in silenzio perché è così che sopra tutto e tutti, loro, decidono. E ti devi adeguare. Se ti ribelli sei pazza. Ti cuociono nel silenzio. Ti umiliano. Ti sgridano. E pretendono che tu resti una meravigliosa bambola di pezza sul comodino. Lo pretendono. Quel silenzio. E se ti ribelli sei da manicomio. Perché gli altri sono sempre intoccabili.Da capire e tollerare.
Tu mai. Poi festeggiano.
Ma anche noi, a un certo momento, festeggiamo.
Mi sentivo sempre al bivio eterno tra l’Ikea e la discarica, cambiavano il luogo, le offerte, le persone, lo Stato. Eppure compravo sempre le stesse cose. Cercavo e mi donavo, da lontano, alla feccia travestita da peluche. Cose da montare. Da sistemare. Da valorizzare. Da salvare dal macero. Tavolini rotti ma con maioliche preziose. Sedie bruciate ma in potenza morbidissime. Vasi rotti da incollare.
Mi ritrovavo davanti al mio demone, rivedevo chiaramente che avevo ripetuto. Non mi ero ancora liberata da lui. Ancora. Ancora. Ed era questo deludente. Non altro. L’umiliazione, non altro. I modi, non altro.
Certo, era accaduto in una veste nuova, che mi dava speranza per il futuro, ma la verità, mica tanto. Una cosa chiara però ce l’avevo. Non avevo più voglia di pagare il prezzo di vite non mie, di uomini che non erano stati in grado di sistemarsi da soli. Avevo bisogno di essere amata e rispettata. Desiderata in quanto donna. E non portatrice di vita, di disegno divino, di novità, cambiamento, cura per gli altri. Come un pronto soccorso 24h ascoltavo tolleravo accoglievo sistemavo curavo l’impossibile a mie spese, poi gli stessi perduti accolti, ripresi dal dolore e di forze, si rivelavano per la loro vera natura, mi punivano attraverso ciò che più scoprivano di fragile in me. E se ne andavano. Lasciando il deserto. Per fortuna. Ma come? Pagandola cara. Carissima.
I bambini che non sono riusciti a salvare i propri genitori dalla morte si assomigliano un po’ tutti. Soffrono tanto. Perché pensano di essere onnipotenti. La morte ha tanti volti, alcune facce sono segregazioni, altre schiavitù, altre ancora crocifissioni e muri di silenzio. Sono abituati a stare soli questi bambini e queste bambine, imparano ad amarsi da soli, ma vedono nel loro cammino, solo i bisogni e i diritti degli altri.
Cercano l’amore, hanno bisogno di calore e di cura quotidiana.
Di essere trattati da persone.
Le bambine ci mettono grande impegno, salvano uomini sfranti, senza riuscirci mai.
I bambini… Non lo so. Perché io sono una bambina.
Lo so oggi. E la pago cara. Questo lo so.
Non vista. Non amata. Non voluta. Una che sua madre non è riuscita a salvarla. Nemmeno suo padre.
Le chiamate crocerossine.
Di fatto, sono donne che cercano di riscattare la loro infanzia, la loro vita impotente. Vedono gli uomini soffrire, e non lo tollerano. E possono appellarsi alla vita e fare qualcosa, da grandi, non come da piccole. Trovano costantemente la loro madre negli uomini che le desiderano, il loro padre negli uomini che le vogliono.
Preferisco essere così, umana e a lavoro su di me, per quanto mi crocifigga per ogni pecca, e mi punisca come fanno con me questi parassiti della vita e della propria persona, che passerebbero su qualunque corpo, pur di salvarsi e raccontarsi che sono splendidi e centrati, che con lucidità omicida sistemano le virgole e il lessico prima di ucciderti, che come loro.
Preferisco, a questo forma predetta di tossicismo di egoismo che non guarda in faccia a niente e a nessuno, scambiato per amor proprio, essere come queste bambine alla eterna ricerca di risoluzione, mi disse Diana attaccando l’ultima lavatrice, con in braccio il suo figlioletto Leo, di 3 mesi. Preferisco essere piena d’amore, e sbagliare, ed essere umana e fallibile, una che soffre, e tanto, ma che vede l’altro e la sua sofferenza, e lo accoglie con tutto il suo fardello, e che sceglie, e riprova, ma che ancora sente, e si dona, e piange, e si arrabbia, si mette in discussione, una che fa acqua da tutte le parti ma ci prova e ci tenta fino all’ultimo, e chiede scusa come uno zerbino da buttare, che dà tutto, e spende. E si spende, in cura e dedizione, in energie denaro amore speranza tentativo di dare una vita migliore a chi, silente o meno, gliela chiede. Risoluzione continua, coerenza, rispetto in nome di ciò che è stato. Preferisco essere una gran sottona e aiutare questi uomini a ritrovarsi, perdendo tutto ogni volta, che essere come loro, con la loro lucidità omicida. Io posso ancora migliorare, e smettere un giorno di cercare mia madre negli uomini disastrati. Ma loro, dal loro male, no.
Di lì a poco mi sarei dovuta alzare e affrontare la notte,
Stavo dormendo il sonno più tranquillo avessi potuto immaginare
Ancora un attimo, un attimo ancora, la copertina mi teneva stretta sulla canottierina grigia, portavo solo quella, quella che usavo sempre per dormire.
Da sempre.
Dormivo il mio sonno più dolce, i capelli un po’ bagnati dalla doccia le orecchie umide, e il suono della cappa.
Basta il suono di una cappa a volte per sentirsi casa.
Il profumo della cena inebriava le mie paure, era la sensazione più bella riuscissi a sentire.
La musica della radio sul comodino entrava nelle corde vocali ridondando di festa paesana
Sembrava davvero un giorno di festa
Odore di cibo cotto alla brace pesce o forse frittelle
La luce spenta della mia stanza lasciava entrare quella del soggiorno
Come quando i grandi restano a parlare mentre i piccoli si addormentano nella stanza di fianco
Ignari di tutto
Consapevoli d’ogni cosa
E voci e cibo e persone e voci e ancora caldo di copertina appena uscita dall doccia
È pronto
È pronto
E cene piene di vita
E case piene d’amore
Festa paesana in casa mia
Il calore umano mi cullava
Eppure non C’era nessuno
Ma ero così convinta d’essere diventata per un attimo bambina
Che quelle voci calde le sentivo davvero, sotto la cappa
Sentivo anche la tua voce
Se stavo attenta
Ma tu non c’eri più
E meno male perché continuavi a convincermi che tu eri l’amore
Che il tuo era l’amore
E che avrei dovuto ancora scegliere te
Uomo sicuro e possente che col suo ego era capace di proteggermi e io
Per sempre attratta
Ma da cosa attratta?
Ma l’amore è un’altra cosa l’amore è profumo di cibo ovunque per casa
Una carezza
Nessuno che ti punisce
Come le scorpacciate di frittelle fatte in casa, che piena di zucchero, mi addormento sul tuo grembo.
Che a proteggermi non servi più. Che a proteggerti, curarti e sistemarti non ce la faccio più.
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