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Melania

Ma non dirlo a nessuno

Filo segreto. Ti salvo. Sigillo, sonaglio. Riscatto. Muoio. Muto.

Condividevo coi miei uomini segreti indicibili.
E questo mi faceva sentire onnipotente, desiderata, imprescindibile. Essenza.

C’è chi era sposato e non lo voleva più, chi stava per divorziare e gli mancava sempre tanto così, c’è chi si stava per sposare e tutto avrebbe voluto fare fuorché amare. C’è chi era stato abbandonato, c’è chi era infelice, c’è chi era stato così poco capito e maltrattato dalle donne, dagli incontri e dalla vita che riversare la loro paura di vivere, la loro frustrazione, su di me e solo su di me, rendeva quel sigillo a due marchiato col fuoco. Ero sempre la loro svolta, la loro scommessa, la loro attesa eterna.
Ero la loro fortuna, la loro musa, la loro dea, madonna eterea, ninfa che lavava dal peccato e consegnava la vita, e che soprattutto si votava immediatamente a loro, alla loro causa, alla loro disfatta.
Amavo giustificarli, coprirli, incentivarli nella loro onnipotenza, onniviltà, e insieme corroboravo la mia. Non sono riuscita una volta a salvarti dall’inferno riuscirò nei mille incontri dopo. Sono forte e sono brava, sono paziente e sono una schiava. Sono il mezzo perché tu sia felice.
Gli uomini che mi volevano erano sempre dilaniati da qualcosa o da qualcuno, una moglie, una famiglia, una donna, comunque e sempre una donna, infelici nella vita che avevano. C’è chi portava la fede e viveva separato in casa, aspettando la maggiore età della prole, per raccontarsi meglio, all’esterno, da marito devoto e padre perfetto, c’è chi prometteva grandezze e sedicenze, girando l’angolo, scompariva per sempre. C’è chi condivideva con me il segreto del sangue pesto, solo mio, chi la rabbia di una vita di merda che non lo capiva, chi la reincarnazione, chi una continua mancata erezione.
Conservare segreti era sempre stato il mio forte.
Ero nata così. In mezzo ai silenzi, in una famiglia disastrata di segreti, in cui fingere fuori, recitare dentro, in cui raccontare meraviglie sul balcone di una vita distrutta, dolente. Dolorosa. Lo sapevo fare come respirare, da sempre, con chiunque vedesse qualcosa in me che nessuno vedeva. Sapevo tenere i segreti, ma non segretucci così: morti, resurrezioni, incantesimi. No, non quelli delle fate e delle streghe delle fiabe, no, quelli accanto, dei miei uomini tenuti per mano.
Segreti.
Ingombranti, laceranti. In due.
E tutti, a modo loro, fragili, chiedevano di essere salvati.
Me li sono sempre scelta bene e dello stesso genere. Con una posta sempre più alta. Una infelicità sempre più insondabile, un dolore sempre più difficile da scovare.
Che io vedevo.
A me non sfuggiva niente.
Mai niente.
Ero brava con l’infelicità, col dolore da trasformare.
Lembi strappati da ricucire, cuori infranti di uomini grandi, di ragazzini, di mariti, padri trafitti, single delusi, imprenditori falliti, scrittori per facciata, musicisti senza orecchio, tutti meravigliosi prototipi di morte. No, non una morte così, per dire, morte per morte.
L’ultimo è stato il più ben riuscito.
Si può dire il più ben riuscito? E io lo dico anche se non si dice. Il confetto meglio riuscito, il più speciale. Uno da doppia vita, o forse tripla, no, forse una soppalcata, a cui votai i miei sogni, la mia riuscita lavorativa, i miei perché. Traghettatori di condanne difficili da scontare, di dilanianti colpe da espiare, l’ultimo è stato di certo il migliore.
Ho sempre odiato le colpe, le dita puntate sugli uomini, sui raggiri, sul vittimismo delle donne. Detto ciò, nella mia vita, mai avrei ammesso che un uomo potesse farmi qualcosa.
Ci ho messo quarant’anni per capire che mio padre era violento, e che ho conservato con lui questo segreto, cosa potevano essere quelli degli altri, in fondo?
Tutto era niente rispetto al mio dio.
Non avrei mai ammesso di ri-amare un violento, un narciso, un ciclotimico, un depresso, un aggressivo, un mago, lo stregone di una setta. La cui setta ero io, tanto era assurdo poter pensare che qualcuno oltre a me, potesse davvero credergli.
E io gli credevo.
Io, donna di successo, donna di scienza, plurilaureata, avevo creduto a un sedicente maestro, scrittore, sceneggiatore, imprenditore di sogni mai propri, scapestrato quanto basta per inventare il presente, il passato, vedere il proprio matrimonio fallito e raccontarsi di essere il Chiamato e chiedere alla prima che passa -oh no, mai stata, mi convincevano, la prima che passa, ma l’apparizione divina di un anelato segno del destino- di salvarlo dalla dua miseria, fingendosi qualcos’altro, qualcun altro sempre diverso, a tutti uomo di di chiesa e di famiglia, ma solo per lei, la verità.
Uomini diversissimi tra loro, per altezza, tempia, società, portafoglio, di cui sapevo conservare i segreti.

Che diventavano i nostri.
I miei.

Mostri.

Sapevo sguazzarci bene. Nella merda ero sempre la più esperta, sapevo trasformarla in fiore, ero cresciuta in campagna, lo sapevo fare, e non per magia. Per abitudine.
Così mi adeguavo al fallire degli altri. Amavo un angelo che mi amava lanciandomi a terra, perché lo meritavo. Ero troppo, per lui.
Così divenni povera.
Ma non bastò non avere un centesimo in tasca.
Io, donna di scienza, plurilaureata, con uno stipendio fisso che non avevo nemmeno un’età, proprio io.
Come potevo ammetterlo?
Finivo così, con i miei uomini per mano. Per ringraziarli del loro amore li riempivo di ogni bene che potevo, ogni giorno era vissuto per loro, la loro felicità mi faceva felice. E lo avrei fatto per sempre. Lo rifarei per sempre.
Perché la generosità, ho sempre creduto che non valesse ma quanto la vita di qualcuno, e mi avrebbe contraddistinto dalla miseria in cui ero nata.
Mi plasmavo al dolore che vedevo, all’infelicità che notavo. Con me, nessuno avrebbe sofferto.
C’è chi non lavorava, e chi lavorava non sapeva che farsene dei soldi che guadagnava, così, per non far sentire nessuno in difetto, sapevo sminuire me, la mia persona, il mio lavoro, il mio bene faticato. Farmi schifo era tutto. Me lo aveva insegnato mio padre.
Adeguandomi alla miseria diventavo miseria.
E non perché fossero uomini miseri, anzi, per me erano bellissimi, coraggiosissimi, intelligentissimi, specialissimi. Tutto ciò che dicevano, promettevano, era per me oro colato. Per me la parola dell’altro si faceva Verbo, dunque Vangelo.
Tutta la magia nei loro occhi era acqua da bere, giorni di morte a me parevano diamanti, in confronto alla vita che avevo avuto, alle fatiche che avevo scavato, era niente. Era tutta discesa.
Anche sedicente malfattore viso buono reincarnato.
Io con i miei uomini condividevo indicibili segreti. Li amavo moltissimo. Più della mia vita. Avevano tutti il loro speciale dolore. E io me ne prendevo cura. Ciclicamente. Mi sceglievano loro, e io ci restavo. Ero brava. Ero eletta.
C’è chi era single, c’è chi era matto, c’è chi era perduto, c’è chi era stanco, c’è chi millantava di avermi conosciuto centinaia di anni fa e che avremmo avuto dei bambini, magari non in questa vita, magari chissà.
Mi era tornata la voglia di morire. Morendo lo avrei incontrato in un presente più vivibile, più accettabile. Meno in lotta come nel passato, meno distante.
Morire significava rincontrarlo e felice, finalmente libero dalla figlia malata, dalla moglie dalla quale scappava. Me lo diceva ogni giorno. Non voglio fare questa vita di merda ancora. Voglio te. Ma non dirlo a nessuno.
Non voglio picchiarti per sempre, voglio te. Ma non dirlo a nessuno.
Non voglio curarmi, voglio te. Ma non dirlo a nessuno.
Non voglio lei, voglio te. Ma non dirlo a nessuno.
Non voglio nessuno che non sia tu, l’ho capito da quando ti ho visto. Ma non dirlo a nessuno.
Mi serve tempo, ho bisogno di tempo.
Aspettami, amami, scusa.
Lacrime, piango, solo con te io posso piangere, solo con te io posso vivere. Ti amo. Perdonami.
Non voglio essere schiavo della vita che ho, io voglio te ma non dirlo a nessuno.
Mi facevano sentire importante, eletta, scelta. Quei continui impliciti, espliciti, urlati, soffici, e soffusi tu sai, tu sei, tu conservi la mia vita un segreto, un percorso un perché che non esiste altrove che qui tra noi, tu, io con te e no, non dirlo a nessuno.
No, non lo dico.
Perché non mi crederà nessuno.

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