
Fermata Mondo, sei giorni
Sulla soglia, una col tuo nome

Filo su Adele e Iana

Non tutte le soglie sono uguali, alcune sono nere altre bianche, altre un po’ color panna, altre poi, tutte rosse.
Alcune, molte, grigie.
Alcune hanno le venature, altre sono a tinta unita. Una cosa però è certa, sono tutte dure, durissime sotto il sedere, le ginocchia, i mignolini, i gomiti sporgenti. È inutile girarci intorno, le soglie sono tutte dure, alcune però possono diventare accoglienti, possiamo metterci una copertina perché non ci faccia male alle ossa, ma la soglia nasce dura e la natura non la cambi, però ti puoi organizzare. La copertina, il cuscinetto, il maglioncino, possiamo metterli solo noi, della nostra misura, e nessuno, soprattutto quando ne avremo più bisogno, lo farà al posto nostro. Lo spessore non basterà nemmeno, a volte, e poi dovremo stare attenti a molte altre cose, per esempio che la soglia su cui ci sediamo non ne abbia un’altra proprio sopra la nostra testa, magari filata e pronta a cadere, o che davanti a noi non ci passino le macchine veloci, o che dietro di noi ci sia una porta o una finestra apribile da dentro e noi non lo sappiamo, e poggiati di schiena, cadiamo all’indietro. Dovremo, sulla soglia, assicurarci di avere un paio di chiavi di quello schienale poco affidabile anche noi, o solo noi, solo così probabilmente le soglie, invece di spacciarsi per sedie comode o fondamenta di case intere, di quelle sporche strette e buie, potranno tornare ad essere semplicemente soglie, lembi per intemperie, paraspifferi per case, luoghi di passaggio, su cui attendere, speranzosi, in riflessione o in riposo. Rettangoli su cui scrollare il grosso del fango dalle scarpe, zattere sicure per brevi silenzi, non letti per persone, poggia succhetti per lunghe contemplazioni, per baci desiderati anni, per storie antiche e per ascoltarsi, e pensarsi mano nella mano in lunghe passeggiate immaginarie in compagnia di un libro, un gatto che prende il sole, magari vassoio per una cioccolata calda, permettendo a nessuno che non vogliamo di fermarsi lì con noi o al posto nostro, persone che non si sa se restano o se ne vanno, se aprono quella porta per entrare o per andare via per sempre.
Perché le soglie sono luoghi piccoli e stretti per una persona alla volta, in cui il viavai lo decidi solo tu, così come se vuoi che l’altro resti.
Sei giorni.
Aveva solo sei giorni, sei grandissimi freddissimi desolatissimi giorni di vita. Quei sei giorni in realtà dovevano essere sessanta in cui restare al caldo al chiuso, in un liquido confortante e sicuro, ma quel liquido non per tutti è sicuro. E quindi stai fuori.
Adele era nata settimina, i settimini si sa sono un po’ particolari, hanno qualcosa nel loro corredo genetico che gli permette di fare cose strane, quasi al limite della realtà, e anche troppa follia. Cose poco pensabili, tipo sopravvivere. E riuscirci per davvero appena scesi alla fermata Mondo.
E anche Adele sembrava non essere da meno, un prototipo di settimina da manuale.
Ripescava i ricordi più antichi incisi sulla sua pelle, a occhi chiusi, per non vedere e non sentire, davanti al portone mogano dell’aula del tribunale. Ancora due ore e poi la festa aprirà le danze, i ritardi si erano accumulati dalle precedenti udienze.
Avrebbe voluto sparire. Il sedere, su quella sedia dura le faceva male, come sulla soglia. Ma non era sulla soglia. Era in un posto in cui non voleva stare.
La soluzione è, o te ne vai o te ne vai, gli altri non cambiano i loro piani per te, se tu stai male a noi delle cause non importa. Qui il nome non si può macchiare.
Sei tu che devi andare via, non ci sono santi che vengano a salvarti, a dirti poverina, a prenderti, se non uno, quello del silenzio. Scegli. Se accogliere quello per portarti via per sempre o muovere il culo.
Devi scegliere tu, non devi stare male, devi essere lucida e anche se stai male non importa.
Sei giorni, Adele aveva solo sei giorni, sua madre la teneva stretta per le vie della città, in quella stagione calda e secca del sud, ma ancora non troppo per bruciare il viso.
Anche se a sei giorni ti brucia tutto, anche il silenzio.
La madre di Adele avrebbe potuto cambiare la storia, quel giorno, tra le vie della città, avrebbe potuto stravolgere tutto il romanzo: il suo, quello di Adele, quello dei figli di Adele, Marianna, per tutti Iana aveva scelto il quarto giorno di maggio per il giorno del coraggio, uno in cui il marito sarebbe rimasto al lavoro fino a sera, così avrebbe potuto vestirsi in pace e divincolarsi dalla suocera, dall’amica della suocera, dalla zia della suocera, dalla sorella della suocera, dal dolore e dalla colpa della suocera, e dalla ripicca di aver sverginato il figlio. Iana piangeva quella mattina, come tutte le mattine di quell’anno immerso nelle lacrime, passato in quella casa, in cui niente sapeva di lei in cui tutti i giorni le ricordavano che era solo una mantenuta. Adele così per compensare, non piangeva, non piangeva mai, a sei giorni uno lo sa se nasce in un posto in cui può piangere o no, non piangeva mai perché sapeva che era pericoloso piangere, allora se ne stava stretta stretta al petto della madre. Bisognava stringersi forte, soprattutto quella mattina, la mattina del coraggio, una per fare più silenzio del solito e portare tutte le parole via, in un fagotto blu dall’altra parte della città, su una nuova soglia. Iana si era decisa. L’avrebbe stretta a sé senza ripensamenti e l’avrebbe portata al consultorio.
Aiuto.
Davanti al palazzone giallo del Planet Fitness, quello alla fine della piazza, sotto le poste, vicino alla banca, dove ogni mattina si raduna la città bene e beve caffè e cornetti non lo sapevano del giorno del coraggio.
Ma Adele ha solo sei giorni e vorrebbe piangere.
E non si può. Adele ha sei giorni e questo ancora il consultorio non lo sa, Iana è sicura, sarebbe andata a chiedere aiuto, perché non sapeva come si teneva al mondo una bimba, da sola, r non voleva più di sentire le soglie nelle ginocchia, quelle che lei chiama ancora oggi amore, amore costante duraturo e dilaniante, quello di suo marito, di sua suocera, della sorella della suocera, dall’amica della suocera, di tutta quella famiglia che la odia, ancora oggi, e che se allora si fosse allontanata di un solo istante da Adele, gliel’avrebbero portata via.
Adele sarebbe sparita dalla sua culla, se solo si fosse distratta un attimo. E non l’avrebbe più vista e lo sapeva, glielo avevano detto in tutte le lingue, tutte meno che nella sua, ma non importava conoscere la lingua, queste cose si sanno. Iana non l’aveva una vita, e anche se ce l’avesse avuta ci avrebbe rinunciato, pur di non staccarsi mai dalla sua fonte di vita.

Un passo falso e Iana lo sapeva che la piccola Adele non sarebbe cresciuta con sé.
E non importa se metti al mondo qualcuno, se qualcuno ti dice che non sei in grado, se tuo marito ti odia, se la famiglia di lui ti odia non importa se hai messo al mondo la loro primogenita. Non importa. Sei un inutile sacco di sangue. Non importa della tua persona o della tua dignità, se hai un lavoro, se non ce l’hai, se hai fatto sacrifici per stare lì, per mettere al mondo una bambina, per metterla al mondo senza amore e senza rispetto, non importa. Sei tu che devi andare via per cambiare quel romanzo, non importa che cosa stai attraversando che cosa succede nella tua vita, se qualcuno ti fa del male, se qualcuno non ti ascolta o ti denigra, non importa chi sei.
Per cambiare il romanzo, sei tu che devi muovere il culo. Devi andartene tu. Iana lo sapeva da qualche parte dentro di sé, nella sua nube di ragazzina, ma non sapeva di esserne cosciente. Né come potervi dare parola.
Così, sorretta da qualche tratto istintivo non ancora soffocato dai doveri, presi il piccolo peluche col guscio e la copertina bianca, uscita dalla porta del retro, col cuore in gola, nel giorno coraggioso era andata via.
Ma la porta del consultorio è troppo grande e pesante per chi ha solo sei giorni e il terrore viola sulle labbra. La porta è gigante e serrata anche per chi ne ha qualcuno in più e ha le labbra rosse tumefatte dai morsi e dalle melagrane, e non ce la fa reagire. La porta del consultorio è pesante per tutti e anche se sei forte, la forza che hai non basta per spingerla e mettere in fila una frase e usare delle parole per cui gli altri capiscano che cosa stai attraversando e pensare che ti giudicheranno e non capiranno e sarai lì con i tuoi stracci e la cosa più importante che hai al mondo che non sei tu ma il fagottino tra le braccia non ti bastano, non ce la fai a spingere quel portone.
Ed è così, che Iana, è rimasta con Adele sulla soglia.
Poi è tornata altre tre, cinque, altre sette volte poi, ma è rimasta sulla soglia. Sempre sulla soglia
Perché quando vai la prima volta è quella più facile
La prima volta ci sono più probabilità che il portone si apra, perché non sai, perché fai finta che ancora te la racconti poco, perché hai più incoscienza, e spesso riesci a spingerlo, ti metti di schiena e spingi con la coscia, e magari qualcuno che esce proprio in quel momento lo trovi. Se lo spingi la seconda volta ci pensi di più, la schiena non la vuoi usare più perché pensi di più, e allora usi la spalla, ma non basta, alla terza volta provi con il piede, la quarta volta usi il ginocchio, alla quinta il gomito, alla sesta il naso e lo sbatti forte e te ne vai sanguinante. E ritorni in quella casa che non hai più, più ci provi e meno ci riesci, perché il tempo passa e l’incastro si incastra sempre di più, e tu ce la fai perché ce l’hai fatta fino a quella terza, quarta, quinta, sesta, settima volta, ce la fai, alla fine non è così male. E poi Adele non piange, piangi tu per lei. Marianna però è sempre stata una donna tenace. Ci riprovato anche due anni dopo ed è riuscita a entrarci, ma non ha raccontato la verità quella vera, quella della prima volta, perché si è abituata. Ora Marianna è brava, ora sa raccontare un’altra storia, il romanzo non l’ha mai cambiato. L’ha fortificato.
Adele ha il suo, Marianna ha il suo, e si toccano continuamente, si ritrovano sulla soglia ogni anno, nell’impotenza di cambiare la propria vita.
Trent’anni, Adele ora ha trent’anni e aspetta il suo turno seduta su una sedia dura come la soglia del consultorio su cui nemmeno ora può permettersi di piangere. Ma Adele il romanzo lo sta cambiando.
Marianna è ancora viva, per un caso fortuito, in realtà non si sa per quanto ancora sarà viva, dipende dagli altri, ha scelto una vita in cui la vita dipende dagli altri, essere vivi o no dipende dalla lucidità degli altri, dal senno, dalla volontà di qualcuno che si sveglia bene oppure no, chissà. E no, non vuole cambiare, ma chi me lo fa fare? ma perché? non ce la fa, non ha voglia non, la riconosce più, la differenza tra quel che è giusto e quel che no, tra quel che può resistere e quello che non può, tra quello che si può e quello che non si può.
Adele non ha più sei giorni, ne ha quanto il tempo della resistenza di Marianna, anche lei è ancora viva, sì ancora viva per un caso fortuito, e si incontrano ogni anno su una soglia a caso, per raccontarsi le favole che non si sono mai raccontate, perché le soglie sono fatte per raccontarsi le favole, anche se sono lontane.
Le soglie sono tane, non sono catini che raccolgono lacrime sono soglie, fredde e umide, in balia degli agenti atmosferici, sono orizzontali le soglie, l’acqua scola e nessuno la raccoglie, proteggono le case, quelle dove si vive e anche quelle dove si muore. Non importa. Come non importa se hai sei giorni sessant’anni o ventiquattro, non importa, importa solo che l’unica persona che può cambiare il proprio romanzo e quello dei propri figli sei tu, e non importa se è giusto o sbagliato, la tua vita arriva prima, non importa il bene che hai condiviso con chi non ti lascia vivere, non importa se vivi in quella casa perché l’hai comprata tu, perché è la tua città, e fai il lavoro dei tuoi sogni, non importa. Davanti alla morte tutto diventa stupido. Non importa chi sei, ti verrà richiesto, ordinato, sputato di andartene tu, e non importa se stai bene se stai male, se sei a pezzi o stai morendo, devi andartene tu, devi spingere quella porta, raccoglierti in cocci perché nessuno lo farà per te. È l’amore più grande che potrai fare alla tua Adele. Se ami i tuoi figli sai che si meritano un romanzo migliore del tuo e in qualche modo non sarai così sola come davanti alla morte, ce la farai, perché là fuori qualcuno ad accoglierti, ad ascoltarti, per quanto sarà difficile e giudicante e soprattutto fuori da ogni schema umano, ci sarà. Nonostante tutto, ci sarà e ne varrà la pena, ne varrà la pena perché sei ancora viva, e se non vedi necessità di vivere, pensa che ne vale la pena per la tua Adele. Pensa che ne vale la pena per una delle tante Adele che là fuori, strette al petto della loro madre per strada, con sei giorni di vita ci provano a piangere, ma non ci riescono.
Chiunque tu sarai e chiunque tu diventerai potrai meritarti una vita migliore di una votata alla assuefazione e alla volontà mai tua di farti vivere, una volontà che non sarà mai la tua ma di qualcun altro che continui a proteggere. Invece tutti, indistintamente, ci meritiamo una soglia su cui sederci e piangere. E guardare l’orizzonte e sentirci vivi, al sicuro.
Magari felici.
Adele si è appena alzata in piedi, il giudice ha fatto il suo nome. Le danze si aprono, varcata quella soglia c’è lei, la porta dell’aula, il giorno del coraggio. Quello per lei, per sua madre, per tutte le donne là fuori. Con lo scialle blu. Il guscio. Le mie parole. Le sue.

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