
Cane di canile
Credere nel quasi

Filo sul mio blu

Nella vita avevo visto solo il blu. Quando sentivo o vedevo troppo rosso mi veniva da vomitare blu. Volevo rosso
Sceglievo blu.
Avevo bisogno di togliere gli altri dalla miseria. Un bisogno, un anelito, un bisogno di vita. Perché io la miseria la conoscevo. La conoscevo molto bene. Forse se avessi trovato il modo di farlo nella vita, avrei smesso di farlo in relazione. Ma se tu conosci la miseria e vuoi salvare dalla miseria qualcun altro che sta affogando e ti implora aiuto, sai come finisce quasi sempre? Che affogate insieme nella miseria, coi fantasmi risvegliati di ciascuno. Io però, uscita da un libro di violenza e fiabe mi aggrappavo con le unghie solo a quel quasi. Il quasi contrario alla miseria volevo essere io. Dovevo. A ogni costo.
Sapevo tutto del canile, non sapevo invece ciò che io canile aveva lasciato in me.
Ero cane di canile io, sapevo bene cosa avevo visto e cosa mi avevano fatto, conoscevo il dolore dell’abbandono e quello sordo dell’abbandono simulato, conoscevo, se è per questo, anche quello acuto in potenza. Avevo girato almeno quattro famiglie. Dalle prime due ero stato cacciato. La terza sembrava la mia. Alla quarta non ci ho visto più.
In canile il tempo non passa mai. Le stagioni si riconoscono dal freddo che senti sul corpo, e quello invernale fa battere forte i denti. Non tutti sopravvivono. I più piccoli fortunatamente muoiono. E non soffrono più. Vivi nel tuo box giornate intere senza vedere nessuno, attorno hai solo disperazione, vedi il muso del tuo vicino che quasi sempre è incastrato alla rete perché vuole uscire e non puoi fare niente per alleviare il suo dolore. Io ormai sono abituato. Box. Lo chiamano così gli umani, box, perché gabbia è meno chic. Da questo box il cielo lo vedi a malapena, senti continuamente abbaiare, di giorno, di notte, a natale, a ferragosto. I momenti peggiori sono i nuovi arrivi. Grandi, piccoli, col muso lungo e il muso corto, con ferite e senza pelo, un po’ come me ora, sì, entra qualunque razza e di qualunque stazza e a qualunque ora. Ogni entrata è un lutto, per noi. Meno cibo innanzitutto, meno spazio, più baccano e altro dolore da buttare giù nello stomaco. Iniziano a spuntarmi le costole tra l’altro. Le urla sono tante a ogni arrivo, così come le aggressioni. L’ora d’aria è un ammasso di bestie impazzite in uno sterrato di cinque metri quadri, dove impolverarsi e schiacciarsi a vicenda.. no, non mi avranno mai. Però ci sono anche cose belle, qui. Il profumo delle scatolette al manzo, le giornate di primavera, gli addii, e Nicoletta. La Nico è una cosa bella di questo carcere di anime perdute, viene due volte a settimana per lavare gli spazi comuni e ci racconta le storie di fuori. Io conosco tutto del dentro, poco del fuori. Resto sempre affascinato. Avete davvero così tanti colori durante l’anno, là fuori?
La Nico ci racconta di distese di roccia sbriciolata morbidossima con dell’acqua che cammina instancabile avanti e indietro. Ma come fa? Si chiama il mare, e io non l’ho mai visto il mare. E nemmeno le montagne. Io però del canile sapevo tutto.
Conoscevo l’attesa della mano umana che si avvicina al chiavistello e il suono delle scarpe che fa la sua risata, sapevo che era un giorno buono quando, sulle sbarre, la Nicoletta all’alba infilava la targhetta rossa con su scritto “adottato”. Erano più di una medaglia quelle otto lettere, più di un tacchino arrosto fumante, tra di noi, al di qua delle sbarre. Era il nostro momento di gloria, quell’orgoglio da sbatterci il muso umido sui musi degli altri. Era il primo segno della imminente libertà guadagnata. Era il segno che qualcuno ti aveva visto. E ti voleva, per di più.
Gli umani finiscono dietro le sbarre per le cose brutte, mi aveva raccontato una volta un veterano di qui, vi ingannano! Vi ingannano, dovete scappare! Sbraitava il mio vicino di gabbia, un anarchico di collina lui, morto investito un paio d’anni fa, me ne aveva insegnate tante, noi però non avevamo fatto niente di brutto, pensavo, noi cani di canile, intendo.
La targhetta rossa significava poi un’altra cosa che conosceva solo chi l’adozione l’aveva provata: doccia gratis, snack doppio e gita in furgone passando per la piazza e poi giù dall’orto botanico. Che spasso, anche il veterinario diventava un posto pazzesco. Quel viaggio era tutto un fremito, significava che eri stato il prescelto della settimana e che non saresti tornato mai più alle pappe scadute, alla lotta per il pane secco e alle acque accaldate nella ciotola. Alla solitudine. Potevi scondinzolare a volontà e andare via dalla miseria e da quella brandina dura e bucata, dal caldo infernale come l’inverno che portavi dentro il cuore. E dal gelo invernale. La conoscevo bene quella pizzicante euforia del primo guardarsi, del primo annusarsi, delle ringhiate iniziali, la diffidenza, il primo toccarsi, e quel sapore buono di rinnovo di fiducia verso l’essere umano che non mi abbandonava mai, ma che puntualmente, veniva disatteso. Lo svolazzare dei documenti in mano alla Nico a metà pomeriggio era il segnale inequivocabile della felicità. L’uscita dal canile, passando per il corridoio dalle luci blu era la vittoria, avere una cuccia tutta per sé vicino al televisore lo era, vedevi già materializzarsi le coccole, sapevi che a quel punto del viaggio non si tornava più indietro, le crocchette di marca erano a un passo da te. Il corridoio blu, l’anticamera delle feste di famiglia, delle gite con gli amici, della musica e dell’allegria. L’ho vista quattro volte la felicità, non penso di volerci riprovare mai più. Se vivi nella miseria e poi conosci la vita poi la vita ti manca. Nella miseria, alla fine, non ti manca niente. Hai tutto quello che serve per non desiderare altro.
Conoscevo tutto del canile, ogni angolo e ogni buco, le pompe che perdevano e il momento giusto per rubare qualche crocchetta in più. L’andirivieni delle famiglie e la delusione di non essere tu il prescelto. Speravi di più e meglio quella dopo. E alla fine eri comunque felice per chi se ne andava, speravi sempre di non rivederlo tornare più. Non come me, che ritornavo.
Conoscevo tutto della vita di canile, le frustate col guinzaglio di metallo se non stavi zitto, la paura dei tuoni, sapevo tollerare così bene il dolore. Ciò che non sapevo invece era cosa aveva provocato in me, il canile.
Presuntuoso di sapere tutto e di essere guarito, scoprivo, di famiglia in famiglia, di anno in anno, mostri di me assopiti che non mi lasciavano in pace. Avevo dentro quel che mi avevano fatto, e ciò che avevo appreso e visto nella mia educazione di cane di canile. Io ci sono nato in canile. Poi la strada, poi il canile. Non ero un cane aggressivo, ma lo ero stato con Anita, la ragazzina più piccola dell’ultima famiglia che mi aveva adottato, un grumo di ricci e anarchia che voleva buttarsi di sotto, giù dalla terrazza del condominio in cui abitavamo, e io in affanno e spavento l’ho morsicata forte dietro il collo. Alla fine non si è buttata, per lei una prognosi di trenta giorni, per me credo sarà molto più lunga e senza dolore, o almeno così dicono. So che è giusto, tra gli umani funziona così. So che almeno potrò finalmente smettere di soffrire la fame. Dicono che ti viene molto sonno e non senti più nulla. Ecco io lo spero.
Io non morsicavo mai, l’avevo visto fare quando ero un cucciolo da mio padre. Quando sei in strada devi conoscere le regole per sopravvivere, mi diceva. Se c’è un pericolo si morsica e si scappa. Se ti senti attaccato si morsica per primo e si scappa. Se non ti senti visto si morsica e si scappa. Se qualcuno ti picchia si morsica e si scappa. Se si prendono gioco di te si morsica e si scappa. Non conosco altri modi per tollerare il dolore quando qualcuno non mantiene la parola o ti inganna. Quando sento odore di abbandono perdo la testa. Quando vedo che qualcuno vuole farsi del male impazzisco.
Per ora comunque mi hanno rimandato in canile, bisogna aspettare, perché io sono cane di canile e ho visto solo il dolore del canile. Alla fine io qui ci sto bene.
Ci vuole tempo, e spazio, e ancora tempo e ancora spazio per accogliere un cane come me. C’è molto lavoro da fare, ma con la famiglia di Anita c’ero riuscito. Poi però non ci ho visto più. Mio fratello era morto allo stesso modo. Giù da un balconcino. Non avrei sopportato una storia uguale. Volevo cambiarla.
Io sapevo tutto del canile, conoscevo ogni sfumatura d’abbaio dei vicini e i viraggi di grigio tanica dell’acqua sporca in base alla temperatura. Conoscevo il dolore e lo tolleravo fino a crepare.
Ciò che ignoravo era ciò che il canile aveva in me causato. Le ferite, i segni, le voragini.
Sapevo qualcosa, e ci lavoravo da tanto, ma era molto poco rispetto al tutto. E io non lo sapevo.
La propria storia non è un gioco da ignorare. Va curata, va amata, va presa in cura. Servono decenni di duro lavoro per permettersi altri colori, e nuovi orizzonti da abbaiare. Forse essere anche accolti e un po’ capiti, non giustificati, ma magari qualche volta amati, e capiti. Al sicuro. Tenuti stretti, dico.

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