
La rinuncia
Quella che salva la vita

Filo su pietre, manifesti bagnati e stessi interlocutori

Divenni pioggia, per convincere la pietra a dare frutti. Ma non servì a niente, se non ad allagare gli occhi
E quel disarmante svelarsi: abbracciarerinuncia
Non si diventa figli venendo al mondo, e nè genitori mettendoceli su
Le sue richieste erano così legittime da farmi commuovere, pensava che senza quel marito sua madre fosse libera, che tolta dalla violenza sarebbe diventata una donna capace di libertà e di amare altro, tipo sé, che avrebbe scelto diversamente, lasciandosi aperta la possibilità di essere donna e fare un giorno la madre
Ma era la modalità di stare con l’altro, sempre la stessa, che non poteva dare risultati diversi, che chiudeva a priori le possibilità di essere donna, libera e madre
Ma per riscoprirsi liberi bisogna rinunciare a qualcosa
Come lobotomizzata, come involucro vuoto del pensiero altro, non c’era modo di stare in relazione se non sempre allo stesso modo, succubi e schiavi
Pensarsi figli davanti a qualcuno incapace di sentire la relazione al di fuori dei propri uomini e delle proprie donne
Era peggio che ricevere ogni volta uno schiaffo sul muso e la rabbia e l’impotenza mangiava quella me, desiderante bambina
Ormai adulta
Ma una donna che non sceglie non è libera, forse non lo sarà mai, almeno non ora, non oggi. E chiedere, a chi non è libero, sempre le stesse cose, non darà risultato migliore che schiaffo, voragine
Pietra sul cuore
Non c’è peggior sordo di chi ha le orecchie
Ma non sa – né vuole – usarle per sentire
Finché non si rinuncia a qualcosa
Così, lacerata, lo feci io
In alcune storie mancheranno sempre alcune figure
Nella mia storia, quella dei figli
Le relazioni con i figli, vanno curate, come l’impegno relazionale messo con i nostri partner. Ma non tutti possono.
Diversificandole, dalle scelte amorose. Ma non tutti ne hanno conto.
Incapaci di provare amore per noi stessi finiamo per confondere i nostri compagni per figli, noi prolungamento dei nostri partner e i figli prolungamento di noi stessi.
È che un figlio non è un partner. Ma questo, molti genitori non lo sanno. E nemmeno i figli. Ma non é responsabilità dei figli saperlo.
Accorgersene è un atto d’amore, verso se stessi, e verso i propri figli. È dura se un rapporto è nato così prima ancora di esistere, si rischia di non essere consapevoli. Ma al malato non puoi dire che è malato, finisci per morire tu. Domandare amore non è una colpa, ma diventa responsabilità se lo si chiede a chi non è capace di darlo.
È come dissodare terra pietrosa sperando diventi morbida argilla, si inorridisce, e ci si sbatte sopra continuamente la zappa. Ma di quell’orrido, portato alla luce, se di vuole, se ne può fare qualcosa. Bisogna reggere botta, mettersi in discussione. A volte la zappa si rompe. Ma non è dei figli dovere di aggiustare. La colpa non è loro se chiedono un sorriso o un poco di entusiasmo. O forse affetto, tempo, esperienze condivise. Diventa mortifero se nessun orecchio è per loro varco aperto, non è colpa loro, se per vivere, cercheranno disperati, altrove, salvezza.
Confondere i ruoli, e pretendere che i figli siano nostri amici, i nostri accudenti, i nostri partner e orto dei nostri desideri inespressi, è pericoloso, per tutti. Si finisce così, dall’infanzia alla vita adulta, dall’altra, per vivere di elemosine. Attese infinite. Delusioni continue. Assenza. Burroni a cui fare appello, sperando i albe nuove, che ogni giorno possano cambiare il loro corso, quelle loro parole verso i loro genitori.
Trovandosi costantemente accudenti e mai accuditi. Sempre presenti, propositivi e mai richiesti.
A volte si pensa di riuscire, ma tempo qualitativamente vuoto si fa reale dalla collina della notte : è uno pieno di sé, di altro, di urgenze mai nostre, marchiate col nome di altri e mai nostro, così si scambia per vuoto generativo il miraggio che il giorno possa portare spontaneamente quelle attenzioni, che si possa sentire lontano il suono di una carezza, di una cura, e dell’amore dato che non ritorna mai, come se le parole non conoscessero la strada per arrivare a segno. Come se non ci fosse l’interruttore, l’energia.
È l’elemosina eterna dei figli non visti, del desiderio dell’amore di qualcuno che non lo sa fare, e non lo puoi pretendere, che è la tua famiglia, e non puoi pretendere di dare la vista a chi non sa di non vedere e di far ascoltare una canzone nuova a chi non sa sentire. Speranze che non si esaudiscono mai, come un partner che non potrà mai darti ciò di cui hai bisogno. Non demordi. Perché sai che non è un partner. E sbagli.
Perché tu speri che cambi. Che crescendo, quella carezza, quel tempo non chiesto, un giorno, se mi impegno, se trovo il momento giusto, arriveranno. Quell’entusiasmo per te, arriverà. E sbagli. Ma non ero sbagliata io.
Chiedendo alla campagna pietrosa di dare frutti, mi prosciugavo.
E diventi pioggia, per mettercela tutta. Ma non funziona.
E allora si salvi chi può.
E allora mi salvo, che posso.
Rinuncio alla mia – posizione desiderata per salvarmi la vita. Per proteggermi.
Con un cartello di sabbia e detriti: nella prossima vita voglio essere figlia.

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