Annabelle
Nella giostra senza biglietto
Filo su quiete, il giorno uno di alba senza giostra
È piena di linee da cui non si deve mai uscire, perché al di là c’è sempre un errore per cui morire
Re si re, sol fa, sol re sol, si la, si la sol fa fa..
Il giorno dopo che l’ansia scompare e lo fa a sorpresa – forse per poco, per poi ritornare, ma per un tratto del giorno scompare, il tempo di dirlo e già riappare – è come aprire gli occhi alle sei del mattino di un’alba fresca d’estate, nella caletta a nord est dei ricordi, che non riesci ad aprirli bene, i tuoi occhi. Stanchi, frastornati dopo una notte di alcol e rave.
Ma tu non alcol.
Ma tu non rave.
Ma l’ansia è così.
Una insonnia continua di pensieri e tachicardia, metronomo dentro lo stomaco, tenaglie dentro un cervello che sembra sapere di lava e detriti sul viso.
Oggi muoio.
E poi non muori mai.
Emozioni troppo forti. Inquietudine. Freddo e poi caldo, brividi e poi sudore. In acqua e dentro il fuoco.
Da fuori nessuno se ne accorge.
Poi il buio.
Il nulla.
Per ricongiungerti a te. A volte per giorni. Anguilla viva su brace calda.
Cosa non va. Non va niente, eppure va. Va tutto, bene o male, non importa, è comunque troppo forte come va.
L’ansia quella spessa e pungente, toglie la parola e accende il petto, annoda le ossa della schiena, una morsa affilata tra gli occhi che si stringono sul naso, una lama dentro la testa. Le spalle vorrebbero scappare allora tiri forte i capelli, per aiutare.
Non serve.
Oggi muoio.
Oggi il cervello mi sembra uscire dalle orecchie. O forse dal naso.
Ci saranno le cicatrici dopo un dolore sì forte? Penso sempre di sì.
Stare in giostra non è facile, giostra centrifuga a cui ti presti, spesso son quelle degli altri, che si incastrano alle tue, sopra crateri bui dove non fare il biglietto, potrebbero arrestarti, potresti cadere giù ma devi andare avanti, ha il sapore del kiwi troppo maturo che pizzica, e del vomito e della ruggine, che risalgono senza mangiare. Montagna a picco sull’asfalto. Senza imbraghi.
Qualcosa che accade e non accade. Allora aspetti che accada e non accade.
Poi accade e devi chiudere gli occhi, perché l’attivazione tra cervello gola e cuore è su un unico uncino che sembra far fuoriuscire dagli occhi il sentimento che provi, come lumaca al forno con l’aglio e lo stecchino. In bocca al cannibale.
Annabelle aveva la sua amaca annodata al Luna Park, e lei odiava i luna park, sempre scintillanti divertenti pieni di luci fortissime, urla e vagoncini perennemente a testa in giù su montagne russe bloccate in salita, mentre vedi tutti camminare beati, lenti, amanti sul marciapiede abbracciati, tra palloncini e zuccherini, a testa in su, spettacolo gratuito a testa in giù, senza fare il biglietto, per salire là, in alto da cui cadrai ma non sai quando.
A ogni emozione che sia, alla sollecitazione che sentirai : non riuscire a scendere mai.
Quindici giorni di ansia incessante a digiuni intermittenti – perché è la giostra a decidere quando puoi vivere e decidere – fanno male a chiunque.
Oggi s’è presa un giorno di ferie, sta lì.
Si è spenta la miccia nel petto.
Frigge un po’ a momenti ma è stanca di accendersi. È andata a farsi bella.
Allora ho preso il materassino, quello rosa e azzurro, che va bene sia per bimbi che per bimbe, dicono, per farmi cullare un po’ dai pesci e dalle onde, nel giorno uno di questa alba fresca, da reduce, aspettando che il sole si faccia caldo, sul pelo dell’acqua. A occhi chiusi, a testa poggiata sull’aria per sentire solamente il tempo che va e viene, sentir rivivere un corpo pesante, e ascoltare il proprio respiro, mozzato per giorni.
Regalato agli altri, per giorni.
Qualche gabbiano che fa colazione mi fa compagnia. Glu glu, l’acqua sotto di me. Com’è fresca tra i piedi. Le dita delle mani.
Nessuno che urla nessuno che chiede sbraita pretende che io sia. Vortice fermati. Vortice lasciami stare. Vortice oggi non compare. Vai via.
Lasciarmi scorrere.
Lasciami scorrere.
Abbi cura di me.
Il giorno uno di alba senza ansia un po’ di appetito ti torna perché il gatto si sposta sulla schiena, ma piano piano, perché non sai bene che cosa dargli. Un po’ di conforto. Una carezza.
Più che appetito, torna una gran sete.
La testa è fresca, ha fatto la guerra per troppi giorni e oggi si sente una dea col vestito bianco, all’interno, una brezza scorre felice e fa le giravolte, un po’ ovattata, non vuole sentire ragioni che pungolino qualche senso da stimolare.
Spegnete gli stimoli.
Voglio riposare.
Il muso e gli occhi pestati dai postumi di una rissa non sanno bene come chiamarsi.
Aspetta. Abbi pazienza.
Questo torpore è la vita, una che ricomincia.
Voglio dormire e non sentire più niente.
Non volevo che i tasti neri sempre messi in discussione del mio pianoforte diventassero bianchi, ma che i bianchi finalmente si tingessero ognuno del colore proprio. Uno che volevano loro.
E che tra i tasti io potessi rifiorire. Respirare. Lasciarmi andare senza paura di giudizio, presa in giro. Condanna.
Re si re, sol fa, sol re sol, si la, si la sol fa fa.. Mozart oggi è tornato a trovarmi, perché geloso ascoltassi Chopin, dev’essere per questo. È tornato a trovarmi in maniera così impellente che iniziai a suonare sul lenzuolo del letto su cui ero sdraiata da ore.
Perché dopo il mutismo di quasi dieci anni?
Voleva parlare un po’ con me e ricordarmi che c’è un tempo di maggese per tutto. Credo che accada così quando un dolore forte si sposta di posizione nel cuore. E allora mi sudavano le mani, come sempre. Forse il dolore della mia ansia, la girandola di quella giostra. Sempre troppo forte per un corpicino solo.
E allora ho srotolato i miei ottantotto tasti con te accanto sul cuscino. Solo per poter mettere il quarto e il secondo dito lì, dove Mozart li pretende ancora oggi. La memoria delle dita è la memoria del corpo. La memoria del mio corpo falliva ogni volta che aveva paura. La memoria della mia mente smetteva di esistere ogni volta che qualcuno pretendeva da lei la perfezione. Prestanza di essere esaminata nel suo sapere, la migliore.
Non ho mai fatto niente per piacere, in tutti i sensi tu possa declinare questo piacere, mi raccontava con gli occhi socchiusi Annabelle. Era tornata dal suo giro in materassino.
Il quarto dito sulla piega del cuscino, guardandola, per me era comunque qualcosa di molto simile alla perfezione. Forse accade così a chi non ha mai toccato uno strumento in vita sua.
Così a chi non soffre d’ansia perpetua.
Suonavano le dita sui suoi tasti, per la prima volta con la memoria di un corpo fallace davanti alle persone: come su un materassino, come dopo anni di lotte e non dormire mai. Ciò mi faceva sentire fortunata, che forse io per lei in quel momento non ero le persone.
Né il fantoccio di quella bastarda ansia generalizzata.
Che scava lo stomaco e tiene allerta, in una nauseante iperattività di stare al mondo mille volte più sensibile di quanto la natura abbia voluto per un essere umano solo.
Ora no. Ora ho bisogno di dormire al sicuro. E prendermi l’amore sincero e la pasta che merito.
Torna a casa Annabelle. Ma quale?
Re si re, sol fa, sol re sol, si la, si la sol fa fa..
Il mal di testa mi assale e l’ansia riappare senza chiedere il permesso.
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