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Coinvolti

Tutti quanti
Filo su Storia di Lana, d’amore,
di vita e di speranza

 

Ho avuto in dono una porzione di cielo, ci ho messo dentro i pensieri più neri e ora aspetterò che diventino stelle.
C. Bramante

Ho imparato a lottare che non avevo neanche un’età.
Prima, durante, poi. Ora.
E non ne avevo voglia.
Né prima, né durante, né poi. Né ora.
Ho imparato a strappare lungo i bordi quando ancora Z non esisteva su Netflix, perché sai che se c’è un bordo e lo devi strappare dritto, sbagliare ti costa la vita. E non le hai le forbici, ti ingegni.

In caso di panico però, ora, so che posso gridare.. pizzetta!

Mi hanno creato così, un giorno che era un giorno dell’anno che non so. Che non volevo. Che non ricordo.
Qualcuno sapeva, era evidente, che da qualche parte sarebbe dovuta andare così, che la mia vita, dovesse accucciarsi lungo i bordi, ad ascoltare, a osservare, a pazientare, a resistere.
Sul bordo, in bilico su un piede, con attorno filo spinato, attenzione a quel che dici, come lo dici, come ti muovi, cosa ne pensi. Perché, pensi?
Le sedie morbide erano già occupate, i genitori tondi li avevano finiti, una famiglia l’avevano già assegnata, anche la casa. E mi sono presa quella che era rimasta. Orgogliosa. Come la migliore mi fosse mai capitata.
L’ho protetta, fino a perderci la vita. L’ho protetto, il bordo, fino a farne pelliccia. Ci ho messo la lana, e ne ho fatto tenerezza da portare come scialle, per regalarla a chi non ne aveva, per riscaldare le spalle, e farla conoscere a tutti quelli che come me erano nati su un bordo, e ancora scambiavano per baci i tagli invisibili dei fogli bianchi, e osservavano goffi, la vita degli altri.
Orgogliosi. Come la migliore gli fosse mai capitata.
Quella vita urgente, da tagliare senza forbici. Da vivere senza braccioli. Da invocare, a gran voce, per affrontare la follia umana e la natura di un uomo, di una donna, poi un altro uomo, un’altra donna ancora e una serie infinita di persone sempre diverse, eppure uguali a loro. Coinvolta. Coinvolta costantemente nelle vite masticate, massacrante degli altri, responsabile, di ciò che accade a chi mi passa di fianco in punta di piedi, perché bagnato. Di lato, sfiorato, schiantato.
Responsabile di ogni cosa. Del silenzio che si sbatte su quei bordi tratteggiati e li distrugge, e scava le ossa, presenze assenti e continuate da gestire, elaborare, con le mani sempre pronte ad accudire e il cuore pronto a organizzare, a sistemare, a rassicurare, e farne uno zoo, un circo da portare al successo, di quei personaggi intrisi di non senso votati al dolore eterno, perché sai che ce la puoi fare, che ci riesci, perché la conosci bene, l’arida follia, perché ci sei nata, in un deserto di sabbia e di acqua lontana, che puoi guardare ma non toccare, che puoi veder sprecare da chiunque e da qualsiasi macchinario utilizzare. Acqua calda d’inverno a te non destinata, acqua fresca d’estate, per il sangue al sapore di ruggine da sciacquare, perché ti hanno creato così, un giorno nel mondo, e quel mondo andava affrontato.
Un mondo che dall’alto della poltrona reale te lo ha dimostrato, urlato, che quel mondo non era per te. Su un bordo, strappato, e non da te, a cui ti sei aggrappata, per prenderti il peso delle irrisolvibili cose risolvere, su quell’equilibrio sottile che implica ancora oggi o vita o morte, per far andare tutto avanti. E bene. Sempre bene. Sto bene.
Forse è proprio per questo. Il perché.
La mia condanna non sarebbe stata la condanna di altri.
Il mio dolore non sarebbe stato, fino a quando avrei vissuto, il dolore di altri. Avrei voluto fare qualcosa, ma impotenti, le carni morivano nel dolore di non riuscire. Ma non era tempo. Non sapevo, che non potevo fare altro che quello che stavo facendo.
Con lo zaino del va tutto bene, l’unico che avevo per andare avanti, ho compreso presto ma non sapevo ancora come, che il dolore silente con me non avrebbe avuto più ragione, che la violenza perpetrata avrebbe dovuto rispondere alle mie domande, e la ricerca dell’amore, attorno a quella violenza, sarebbe diventata la mia opportunità di vita.
È per questo, forse, che con le tante possibilità che avevo, il mio corpo, quando c’è stato da vivere o da morire, sin dal giorno zero, aveva già scelto che fare, da solo, perché è sempre arrivato prima lui di me, un giorno che era agosto e poi ogni anno, nuovi agosto, se diventare come loro, e continuare a romanzare una vita sempre uguale, accanita su se stessa, come quella che mi avevano dato, come le persone che avevo amato, come le battaglie che avevo perso, o prendere quelle carezze mai avute – ne vedevo morire al macero migliaia di tonnellate, stipate nella muffa in magazzino – e farle morire soffocate, o scegliere di pulirle, e dar loro da mangiare, e metterle in moto, perché nessuno soffrisse così tanto.
Volevo per il mondo un mercato di carezze. Per chi ne avesse avuto bisogno.
Per chiunque non sapesse di averne bisogno.
Avrei costruito io, una possibilità di conforto, un’opportunità di sconfitta alla disperazione, anche per quella bambina, per quella donna che ne aveva ingoiato troppa.
Avrei usato il filo rosso che aveva da sempre tenuto forte il mio cuore e le mie mani, perché nascesse una carezza infinita, alimentata dalle stesse persone e fruibile a tutti, una domanda, una ricerca, volontà continua di collegare il cuore di uno a quello di un altro.
Coccolare il tumulto che ognuno di noi sente al proprio interno, attraverso le uniche cose di cui mai avevo disposto: la parola, l’amore, l’ascolto. Una parola preziosa avvolta da una sensibilità tutta sua.
Una cosa morbida che implicasse costantemente una scelta, dove mettere mano? In se stessi, e fissarla nel tempo, senza il dovere di farlo per forza.
Il non dovere spalanca le porte alla vita.
Alla possibilità.
Alla domanda.
Se lo vuoi esiste, un luogo in cui non sentirti solo.
Ed è prezioso, perché ci sei tu.
L’esigenza di morire per perdita di senso, la lana la conosce bene, l’esigenza di sparire per stanchezza, anche, ma è quella bambina che ha vissuto dentro le trame dell’apnea, della violenza nascosta e conclamata, del dolore trattenuto nei denti, nel silenzio, nell’umiliazione e nella follia, e poi nelle bugie, nei lividi e nella solitudine, che prima ancora di capire, prima ancora di parlare, ha assicurato, all’esistenza su cui gli altri ogni giorno si sarebbero specchiati, che avrebbe dato a chiunque, e forse anche a se stessa, un’opportunità di tregua, quella mai saputa eppure chiara e viva al suo interno. E l’esterno, acre e mai dimenticabile, come monito, come esempio, come esperienza a cui ribellarsi ogni giorno.

Un chiaro ma io no.
Ogni giorno.

La lana avrebbe coccolato mani tremanti, il tessuto avrebbe accolto la paura prendendo vita nuova da quel bordo, ogni giorno, per togliere a modo suo, terreno alla rassegnazione, incapace di parlare con le parole dei sentimenti.
Avrebbe usato parole pratiche e quotidiane, urgenti e toccabili, come quelle dei bimbi che per forza di cose non possono che sposare la rassegnazione che trovano, rendendola meravigliosa, per poterci convivere, cospargendola di fiori, di biscotti e di cura.
Dilaniante solitudine.
Ed è per questo.
E forse è proprio per questo che mai, da schiava, avrebbe permesso schiavitù. Mai più avrebbe dato la schiena alla durezza, al silenzio, alla complicità di essere anche lei parte di un mondo in cui riempirsi la bocca di bellezza senza sapere coglierla negli occhi dell’altro, mai avrebbe cosparso di falsa comprensione la sua vita per sentirsi a posto con sé, con commiserazione e apatia scambiata per empatia, senza prima guardarsi la coscienza.
Ho assicurato al mio esistere, che la mia presenza programmata su questa terra non sarebbe stata sprecata a compiangere i vorrei ma non posso, perché posso, e se posso io, puoi anche tu, attraverso la modalità più innocua, più ingenua e stupida, una che riscalda e perdona, che accoglie. Un giro di lana e d’amore. Attraverso l’amore avrei affrontato la vita più dolorosa, mettendo in dubbio la morte, la segregazione, la ripetizione di agire sempre uguale, e il non controllo. Perché? Una serie infinita di domande che non vogliono risposta e soluzione e per questo, forse, da qualche parte, la danno.
Non sarei diventata complice di silenzio anche io, anche a costo della vita.
Nessuno avrebbe trovato porta chiusa, la mia almeno, soffocato dall’impotenza di vivere qualcosa che sente normale perché crede sia destino.
Ho assicurato alla mia vita che il silenzio non avrebbe trovato più giustificazione, tana, assuefazione, ogni qualvolta qualcuno avrebbe lanciato un amo, anche piccolo, nell’oceano freddo e inospitale davanti a me, dove io guardo, dove io esisto e dunque posso. Ho assicurato, in una antica promessa, che la mia vita sarebbe servita ad amare, e a coccolare quei buchi ormai voragini di cui tutti noi siamo rattoppati.
Per darla io per prima, un’opportunità d’amore mancato, senza pretendere, al contempo, che qualcuno se la sarebbe presa.
Ma ci sarebbe stata.
C’è.
Un dove di conforto, quello che non tutti conoscono.
E che nemmeno oggi hanno, e forse non conosceranno mai, ma non è questo l’importante.
L’importante è trovare una chiave oltre il proprio raccontarsi, perché fino a quando la presenza di uno solo, avrà la forza di restare a filare su questo piccolo angolo di mondo, sarà assicurato quel luogo dove non morire per forza, dove anche anche uno solo potrà trovare ascolto.
Accoglienza. Presenza costante, assicurando in prima linea la mia, probabilmente inutile, incosciente, effimera, semplice. Ma lì. Presente.
Perché una presenza quotidiana accanto a un’altra crea l’oggi, e con pazienza il domani. Crea quel per sempre di cui abbiamo terrore. Ma io no.
E proprio perché terrorizzati, riteniamo da stupidi e da sognatori incalliti, pensare di cambiare il corso delle cose le più dolenti e senza parola, attraverso la parola stessa, una diversa perché la propria, una messa in gioco con coraggio, una che fa la differenza, una aperta nei confronti di sé, e di quell’altro davanti a noi, nudi insieme all’ascolto, all’amore, all’accoglienza  insieme all’ascolto, all’amore, all’accoglienza di quel terrore, che chiudiamo a chiave nella nostra torre d’avorio, per trastullarci, per non volerla trovare mai, un’opportunità degna, tanto da dedicarci la vita, a quella.
Tenerezza.
Tenerezza è fare uno spiraglio con un giro di stoffa che regala colore in un luogo col proprio nome.
Follia. Follia sarebbe dire che con le parole e pochi centimetri lana lo cambieresti il mondo, il destino delle persone. E perché invece no? magari il mondo di uno, solo di uno, ti pare poco?
E allora ci dedico la mia vita. A quell’uno.
E ne vale la pena.
Perché la lana è una piccola prova della nostra tenacia, anima viva, regalo di un essere in vita, porta con sé la sua storia, una che coccola le dita, non vuole dare una soluzione alla vita, non gliene frega niente di avere ragione, di trovare qualcuno a cui dare le colpe, di sollevare dalle responsabilità le persone, ma di dare uno spazio, intimo, e morbido per guardarsi dentro. E quando fa molta paura, questo affacciarsi al proprio buio, dentro, dove ci si sente tanto soli, ecco la scoperta: qualcuno c’è. Qualcuno c’è che ti sta accanto. Un altro che si sente solo, come te.
E allora che fare? ci si lascia andare a una coda di pelusc, si grida se si vuole, si lascia tutto se ti va, puoi piangere, ridere da matti e impastare le mani nei colori. Prova ad attaccarla, attaccala dove vuoi, accarezzala, ritagliala quella paura e falle fare i giri, dalle una figura a quel sentimento burbero.
E magari sì, magari qualcosa in questo presente lo cambi, un posto che prima non esisteva ora esiste, perché un giorno uno spazio ha stupito anche me, e sapeva di bordo, di quel ritaglio di paura, il tratteggiato era diventato una pelliccia. Una per tutti. Che non fa paura.
Non serve accanirsi su un germoglio che non cresce. Non serve spaccarsi la testa su qualcosa che non va.
Puoi solo provare a starti accanto e stare attento ai tuoi segnali, e accudire la terra attorno, puoi raccogliere i raggi del sole, e fare esperienza, di stupore, vita, sopravvivenza. E come per magia, magia che non è, che quel “solo” diventa essenziale. Si trasforma. E cambia il mondo.
Ribellione al silenzio. Quello in cui si muore. Quello di coppia, amicale, familiare, di gruppo. Di massa. Il silenzio non protegge. Neanche quello in buona fede. Il silenzio nasconde e porge la mano alla paura.
La paura.
Quella folle di vivere, di respirare. Di amare. E forse per questo, ancora più grande e sempre più vivo il desiderio di grattare con le unghie l’aridità costante di un superficiale rapportarsi agli altri.
Mi ribello a questa vita abbracciando le mani di chi con me riesce ancora a emozionarsi, porgendo le braccia soprattutto a chi non ci riesce, chi ha più bisogno di amare ed essere amato ma non sa come si fa.
Mi ribello alla diseducazione all’emozione di non sapere che farne della rabbia, della malinconia, del dolore e dell’amore, e ci fisso il lembo di un muso di zebra, mi ribello al non senso, scegliendo tra il lilla e il rosso, e forse anche il blu. Un bottone giallo è la mia proposta di vita, mi ribello alla durezza dietro il quale ci si cela per mostrarsi integri alla vita.
Nessuno è integro alla vita.
Mi ribello baciando le ferite, le tue, mi ribello alle battaglie fatte per retorica. Non esiste pietra miliare. Ovvia. Così sia. Distrugge il cemento, l’acqua cheta. Non solo l’esplosione di una bomba.
Anche se sul viso porti i solchi della tortura, sai amare. E non è un dettaglio da buttare.
Il viso dei cinque anni inganna bene, dei dieci anche, a modo suo, quello dei vent’anni di ora, dissimula, ma non ne ha più voglia, è vero, resta consumato quel viso, nel sorriso, dal dolore, ma è vivo, e parla ancora.
Mi ribello alla diseducazione emotiva. All’aridità. Ai ti amo per possesso. Ai silenzi punitivi. Al lavoro, prima delle persone. Alle parole dette solo in punto di morte.
Ti pare poco, un quadro col tuo nome? Se vuoi, quando hai voglia,
Storie di Lana è per te.

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