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La mia luce, ha il colore della terra

Zappando sola, ma non da sola
Filo sul mio ettaro, dove nasce il sole

Ognuno nasce nella terra che ha. Non la sceglie. Fa il meglio possibile con tutto quello che ha. Ciò che può, quello che non sente.

Faceva capolino dal suo sole, Rosalinda. Poi fletteva il capo da una spalla all’altra, lì dove c’era il buio, dal quale automaticamente veniva fagocitata. Perché per una ragione recondita e scritta sulla pietra, se ne doveva occupare. Doveva sprofondare sotto terra trascinata dal buio dell’altro.
Era necessario imparare a separarsi dal baratro. Ancora non bastava. No, che non bastava. La fiamma esplodeva di bene e di luce mentre l’albero della morte cresceva accanto a lei.
Rosalinda era lei, il sole, e il sole era solo quello di cui si doveva occupare. Ma pareva ancora molto difficile perché la vergogna di essere un sole, era tanta almeno quanto la colpa di scegliere la vita. Di essere tanto attaccata alla luce, la vergogna era tanta. Di aver deciso di vivere la versione migliore della propria vita potesse pensare di meritare, la vergogna era tanta, se c’è chi accanto vuole morire.
Non devi resistere. Puoi sottrarti. Sempre.
Stai lontano dalle torture delle vite mortifere.
Puoi. E avere una casa coi limoni anche tu.

In quasi dieci anni ho imparato tante cose. E ancora tante sto continuando a zappare con il mio manico di zappa grosso e nuovo. Quello liscio senza schegge, per intenderci. Zappare è un verbo che amo così tanto mi disse Rosi con gli occhi a mandarino..forse perché ho conosciuto la zappa prima della penna o delle matite, così pensare di zappare qualcosa mi permette di ricondurla subito al gesto, me la sento proprio tra le mani e i piedi, attraverso me. In quella fatica che renderà la terra morbida. E tu ci credi che col tuo lavoro quotidiano diverrà morbida. Perché la terra su cui sono nata era brulla, secca assai, e piena di pietre. Era l’unico ettaro di tutta la zona in cui attecchivano pochissime cose. I fichi tenaci, le susine forti alle intemperie, le piccole pere, i mandorli, di certo. Gli ulivi quelli selvatici e i fichi d’india.
L’edera. L’albero di Giuda. Ma la frutta che avevano tutti i terreni limitrofi no.
I limoni no, mai, i frutti grossi e succulenti, erano delle case dei ricchi. Della terra ricca e nera e piena di nutrienti. Del prato verde e tagliato, irrigato e fiorito dai giardinieri.
Ora infatti come vedo un limone penso a un lusso preziosissimo. La vedevo lavorare che nemmeno ero atterrata nel mondo, quella maledetta terra, prima di saper parlare. Noi la lavoravamo tanto, dalla mattina alla sera, sono nata tra le pietre, nel calcare e tra la muffa. So come dividere le pietre dalla terra anche a occhi chiusi.
Ho imparato tanto in questi dieci anni, scappata via da quell’ettaro. Per occuparmi del mio.
Ma tante davvero.
La luce più grande è forse quella sensazione di carezza accanto, sempre, che arriva forte quando non sto bene da qualche parte o con qualcuno, so che non devo resistere, in nome di nessuno e di nessuna bella o brutta figura. Posso sottrarmi. Sempre. Nessuno conosce la mia storia e i miei perché, e non devo rendere conto a nessuno dei miei gesti e di ciò che la gente crede al si fuori, e fuori luogo: la mia luce ha un nome bellissimo e mi ha insegnato che posso sottrarmi. Da tutto. Da tutti. E farlo sempre.
Rosalinda mi abbracciava la mano con due mani con tutta la forza che aveva, senza lasciarmi mai.
Quella forza che ogni bambino ha, quando sta per perdere qualcosa che ama in un burrone.
Mentre lui è il sole. Quando impara a lasciare chi vuole andar via. Chi vuole morire. Chi non sa difendersi da sé e le sue armi.
Lei che di indole salvava anche le mosche dalla mondezza.
Non devi resistere. Puoi sottrarti. Sempre.
Stai lontano dalle torture delle vite mortifere.
Puoi.

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