
La busta
Notti comuni, per gente così

Filo su mostro, è un GildaMostro

Io la maschera, non me ne vogliate, oggi non la metto, la sfilo, la lascio cadere sotto il mento
Un viso stanco si aggira ancora tra i fiori del vicinato più pettegolo e silenzioso. Portava la primavera, e non lo sapeva, ma a ogni passo pesante di limo c’era il fango a risucchiarla dai piedi.
Vagava. Ma dov’è che andava? Non si sapeva.
Non riesco a farmi una passeggiata che non sia lontano da tutti. Ne ho bisogno, ogni giorno, come si ha bisogno di dormire. Si poggiava raggomitolata al bracciolo della sedia, un batuffolo di trentenne non ancora sbocciata, GildaMostro. La chiameremo così.
Ho bisogno di riposo dalle interazioni forzate, dagli sfoghi del corpo, dal malessere di sembrare di dover essere.
Di essere una persona normale, dal prurito sulla pelle.
Dagli sguardi della gente.
Normale per gli altri, insultarsi. Con le mani e con la voce.
Silenziarsi. Vivere morti.
Da morti.
Io non ci sto.
Allora le prendo. Dalla sera alla mattina, con le parole, con le dita negli occhi e le porte nella schiena.
Ma io non ci sto non lo sapevo dire. Tenerti buono era l’unica cosa che mi faceva dormire.
Dormire.
Ma io non ci sto perché vent’anni li ho passati così.
Abbassavo la testa per far finta di contare le fughe del pavimento. Poi le contavo davvero.
Allora davanti a voi che siete così simili, a me vien tanto facile, so come si fa a cambiare le cose, farò cambiare la vostra serie e vi salverò da quelle mostre che non vi hanno capito.
Che vi hanno maltrattato. Inorridito.
Poi però ho fatto serie anch’io. Una stronza in più per l’infinito.
Non vi ho cambiato, salvato, aiutato, schivato.
Cullato, protetto. Sono sopravvissuta dicendo la mia, a costo della vita. E non ho mai vissuto .
Così preferisco impegnarmi a stare lontano da tutti gli sguardi. A scegliere di non incrociarli.
Perché son quelli che incrociare desidero, ma non tutti gli sguardi. Solo quelli possibili. Non stancanti. Incolpanti. Prestativi. Confrontanti.
Per quello li aspetto, lontano da tutti gli altri.
Gli sguardi giudicanti.
Son giorni di festa. Ma mi guardo attorno, non c’è nessuno. Ho la sensazione che le persone mi guardino e mi trafiggano come una salsiccia da cuocere al fuoco.
I loro occhi mi infilzano, mi scavano dentro.
Ma non è proprio questo. È più profondo: è il senso del mostro. Innervosire gli uomini esistendo.
Preferisco non mi veda nessuno, perché mi sento un mostro con la pelle fatta di croste rosse e cicatrici viola, grande e ingombrante, ma anche un corpo ammucchiato male nelle forme e nelle ossa, un mostro deforme, e grasso di paura, gonfio e pieno di parole sporche e scelte sbagliate, e pieno di macchie, brutto e sfatto, un mostro con la faccia tonda, un mostro che si deforma quanto più viene guardato agli occhi di chiunque mi degni del suo sguardo. Passante, sconosciuto, non cambia, è la costante del mostro.
E se ti conosco? Mi viene come l’infarto.
Allora mi nascondo.
Preventivamente mi nascondo,io non voglio spaventare la gente, mi nascondo come allora, con lo specchio che non mi guardo mai.
E così mi squadro sempre.
Non voglio che le persone si schifino di me, mi sussurrava con gli occhi, guardando me, incrociando me, che inorridiscano nel posare il loro sguardo su di me, anche per caso, anche distratto.
Perché parlavo. Perché esistevo. Era questo il male più grande, e così, ho capito, non sono capace di saperti felice, perché voglio vivere, e non ti rassereno. Volevo esistere, e che esistessi anche tu. Con la parola parlata, e l’aiuto di un medico che ti aveva capito.
Ma hai curato me.
Per eliminare me.
Cammino dove nessuno può vedermi, se non un vento sereno tra i miei capelli. Che non mi giudica deforme, e orripilante.
Sono mesi che mi gratto insistentemente sa?
Mi gratto perché distrae il mostro parlante dall’agitazione di dover essere persona affabile e insieme, se mi guardi, mostro stanco, mai in pace. Di non sapere che fare mentre si deve parlare. Di chi posa la sua attenzione su di me. Un dialogo.
Ma non è proprio questo. È più profondo. Mi sono inventata un diversivo, il fulcro del mio mostruoso si sposta, si diluisce e non mi sbuccia vivo, come pesce squarciato col sale. Così divento a macchie, e poi, a crateri, allora mi gratto e mi salvo, devo sempre fare qualcosa mentre mi parlano, mentre parlo, mi salva dall’interazione in cui mi perdo, dalla parola, dallo sguardo dell’altro, mi aiuta a indirizzare lo spiedo che trapassa su di me oltre, da me. A volte son così brava che lo schivo.
Mentre continuo a vederti mi si tappano le orecchie dallo spavento.
Vorrei camminare con una busta sulla testa e sulla pancia. Lì dove nasce la vita.
Sono giorni di festa e la colpa ha mangiato le pareti dell’intestino che si contorce come un serpente avvelenato dal destino. Non sono riuscita a salvarti.
Salvarvi, è questo a cui ho votato la mia scelta infinita, nella cura e nella spinta verso una vita degna, per sapervi uno per uno felici.
Non me ne capacito ancora.
Sono GildaMostro che insiste sulla vita.
Una lista seriale di persone infelici.

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