
La vostra eredità
Io non sono Marie Curie

Filo su Guenda

Eredità nascosta, così tanto da vedersi al sole. Così tanto uccisa da portarsi a uccidere, pur di non farsi scoprire. Ma mica tanto sai, se ti guardo nello spazio segreto dentro l’occhio.
Ma tu quando sei felice come fai a capire che sei felice?
Lo sento dentro gli occhi.
Lo sento sugli zigomi, incastonato accanto a quel naso che non sopporto, come un crampetto fisso su entrambi i lati alti del viso, sull’osso, sotto gli occhi, prima ancora che spunti un sorriso.
La fronte lo sa già quando sono felice, e tutti i muscoli del volto.
Prima ancora che io lo sappia.
Sono diventata
Tutto quello che avete soppresso
Negato
Ucciso
Soffocato
Ammazzato
Di voi
Sono diventata
Tutto ciò che avete negato
Dimenticato
Soffocato
Ucciso
Lasciato
Per fortuna
Non troppo bene,
Non abbastanza bene
Ora e qui
Ancora
Ho messo insieme i lembi
E l’ho fatto mio
A dispetto di tutto
E di voi
Potete deludervi
Disperare
Ma non lamentare
Sono diventata tutto quello che credevate morto
Perduto della vostra gioventù
Guenda era infusa, un infuso di sapienza come bustina fatta a mano nel brodo bollente della scienza, aveva vissuto la sua vita col mito dello studio, della conoscenza, una infinita, perché quella non può finire mai, fino a che non è diventata un’ossessione, una toglie l’aria la voce la dignità della vita.
Si dice che di troppo studio non sia morto mai nessuno, non ero mai stata d’accordo con questa frase, non per Guenda almeno, che se non fosse nata negli anni duemila sarebbe morta di tisi in qualche biblioteca tedesca durante un tafferuglio dello Sturm und Drang. Guenda voleva per suo padre una figlia scienziata, cantante, una dai capelli corti con il savoir faire francese. Avrebbe vinto la borsa di studio alla Columbia, o alla Yale, fino ad arrivare a prendersela quella cattedra ad Harvard, niente di infattibile, tutto per Guenda era fattibile non la sai fare? Falla e la sai fare, si sarebbe trasferita in America, avrebbe cambiato il volto della medicina, o forse quello della biologia. Chi lo sa, magari avrebbe finalmente scoperto una soluzione per la fame nel mondo, in giro per quel mondo disastrato ad aiutare chiunque, proprio come lui.
Guenda con i calzettoni e un pallone al posto delle ballerine, Guenda sovversiva innamorata della natura e degli animali più strani. Era nata col mito della scienza, quella delle pergamene, dei titoli, dell’immagine della cattedra stampata addosso.
Una grande ricercatrice. Una con le palle, si dice, una figa. È da mollacciotta fare la casalinga, la mamma, la maestra, da idiota la modella, la filosofa, psicologa. Una che ne sa, una donna di scienza. Guenda voleva per suo padre ciò che suo padre voleva, una donna con le palle, una sicura di sé, curiosa, speciale, una che sa le lingue, e tante, le sa scrivere tutte, Guenda che cambia le cose. Che vive in un dove sperduto, a guardare le sue mucche pascolare, lontana da tutti, coi suoi gatti i suoi libri, Guenda. Che lavoro fai Guenda? Caspita, complimenti. Guenda come sei brava, Guenda ha il curriculum invidiabile. Brava Guenda.
Ha curriculum da paura, dodici pagine e tre quarti, la più giovane che l’università abbia assunto, la più veloce nelle consegne, la più esperta di relazioni umane, la migliore nel suo campo, guarda le menzioni e i dottorati, te li sogni tu,, Guenda la vogliono tutti, e le borse di studio e le conferenze da cui pendere dalle sue labbra, le grandi strette di mano.
Complimenti Guenda, Guenda, che gran testa Guenda.
Guenda voleva per suo padre una donna di scienza di grande spessore, per cui appagarsi dei complimenti degli altri, camminare per il mondo a testa alta con un cartello appiccicato alla faccia, Io sono Guenda, la nuova Marie Cuire, dove tutti l’avrebbero riconosciuta per le sue grandi scoperte da laboratorio, per le sue ricerche, per la malaria, il cancro, nuove spirali da DNA. Voleva regalare a suo padre la grande soddisfazione di ricevere finalmente ciò che aveva sempre preteso.
Nessuno si era mai accorto di una cosa, però, che la felicità vive tra gli zigomi e gli occhi, prima ancora che spunti un sorriso. Nessuno aveva calcolato la variante. Nessuno aveva pensato al turbinio degli occhi, sopra gli zigomi e sotto la fronte. Quello della gioventù. Quello delle cose non dette. E uh, in quella famiglia, di cose non dette non c’era da preoccuparsi di non trovarne, ci si sguazzava come papere nell’acqua, c’era l’imbarazzo della scelta.
Il turbinio del contrario, la variante della sua famiglia, se così la possiamo chiamare, nessuno, men che meno lei, aveva preso in considerazione che la vita, la loro vita, le avesse avesse lasciato in eredità tutto quello che non le era mai stato dimostrato. Tutto ciò che era stato celato. Nascosto. Non raccontato. Soffocato dal non è vero, non si deve, non esiste. Mai stato. Lasciato distrattamente su parole dette male, sugli occhi, su pezzi di cose morte dentro una catapecchia chiamata casa, in fotografie sparse, senza tempo e senza un dove. Nei ricordi mai detti. Nel sentito dire dagli altri, fuori, male, sottobanco e di nascosto. Sotterfugi. Nessuno aveva mai guardato dentro l’abisso e aveva fatto i conti com la realtà.
E Guenda, di tutto quello, aveva fatto nel tempo bottino. Tenendoselo stretto, di nascosto anche da lei, perché non è giusto e non è bene. Non è quello che era stato scritto già per lei.
Ci sono forze maggiori delle urla e della violenza, quelle che vivono sotterranee ai romanzi sbagliati. Se si fossero ribellati di meno all’evidenza e chiunque, si fosse reso conto in tempo, forse, la variante del contrario non sarebbe stata così lucida e forte, ora.
Guenda non era Marie Curie.
Quella famiglia le aveva lasciato in eredità il mondo negato, tutto quello che quella famiglia non era mai stata, tutto quello per cui ognuno era stato incapace di essere, essere in quella famiglia chiusa e bigotta, fare ciò per cui ognuno era stato destinato. Ciò di cui si erano vergognati e tutto ciò che avevano negato, a cui mai avevano dato adito, fatto riferimento, pensato. Dato ascolto.
Nessuno aveva mai preso in considerazione che Guenda si sarebbe ribellata, un giorno lontanissimo, a quel cartello appagante e sicuro al mondo, nessuna di quelle era stata la sua strada, presa, sposata, faticata, eccelsa.
Nessuna.
Guenda aveva preso i cocci migliori della loro gioventù per vivere di ciò di cui erano realmente costituiti i suoi geni: amore, vento, arazzi di colore mischiati a polvere di cavalli e sandali sfibbiati, e veli sulla testa e grano tra i capelli. Quelli coi quali intrecciare la follia umana destinata a sovvertire la vita e distruggerla nelle pieghe più fragili, nessuno avrebbe mai immaginato che Guenda sarebbe stata capace di altro, della cura al cancro, di forgiare il pane con le mani, per chi avesse avuto fame, e bisogno di acqua e sete e tempere mischiate al sangue e alla paura.

Guenda era diventata tutto quello che in quella famiglia si era sventrato sotto i tappeti, sotto le pareti coperte dalla pelle dei grandi luminari, le tende rassettate dai titoli e le porte incise dal denaro pianto sulle tombe di marmo.
Sarebbe diventata l’amore.
Quello di cui non si era mai disposto.
L’arte che suo padre aveva chiuso nella cantina dove morire impiccati, la spavalderia di sua madre nei vestiti da zingara e nei cavalli imbizzarriti delle praterie ungheresi.
Guenda era diventata tutto quello che loro erano stati nel tempo della negazione, che avevano soffocato talmente bene da infondersi in lei ovunque, uccisi da loro stessi, silenziati dal grilletto del dovere di essere dotati di giudizio, votandosi a una vita che non avevano mai potuto sopportare.
Non sono Marie Curie. Non scoprirò una nuova stella in alcun universo, non andrò nello spazio, non avrò un curriculum valido per Harvard, non risolverò la fame nel mondo, sistemerò ben poco o niente, non mi riconoscerà nessuno, non mi appagherò della fama di essere lodata, ma darò un pasto caldo, ogni giorno, al bisogno. Costruirò giacigli, e coperte per scaldare il cuore, un pronto soccorso per l’anima che duole. Parlerò con la luna, con il mondo, non tutto, ma di uno, starò accanto alla miseria e alla gioia di chi una speranza la ha ancora, sussurrerò cose alla solitudine, quella di cui mi avete cibato. E intreccerò il dolore col quale mi avete campato.
Non sarò mai Marie Curie, no, non salverò le vite in corsia, non sovvertirò i destini della biologia.
Incollo i cocci di ciò che avete perduto. Che non ho mai conosciuto.
E mi avete lasciato, senza aver mai saputo.
Mentre i corpi votavano la vita alla morte, la piccola coda di un passato da me mai vissuto, ma solo da voi, bussava a una porta senza chiavi, continuamente, senza speranze, una vergognata umiliata abbandonata dalla facciata benestante, così povera e inguaiata, mentre l’altra come torrente sotto le ossa, bucava le pietre, silenziosa, ribelle, fuori schema, e dandomi da bere a gocce, rare e rade mi scavava. Dolente.
Affamata, arrivava a condannare a morte tutti, pur di non farsi vedere, pur di continuare a leggere il copione buono, pur di non ammettere che era quella occultata, l’unica eredità di cui mi importava, giocavamo tutti allo stesso gioco. Senza parti, senza ruoli. Nella giungla.
Ma non era mai stata la mia.
L’eredità di cui mi importava suonava l’armonica, si lasciava ballare dall’altruismo, dalle ferite profonde, dall’amore mai avuto, dalla tenerezza per la vita, per le persone. Di fragilità si costituiva e si dava. La mia eredità era quella di quei ragazzi divisi dai chilometri, poveri di tutto ma non ancora di se stessi, delle magliette verdi e i pois viola, lanciate dagli scivoli troppo alti da pensare esistenti. Dei costumi strappati dalle risate e dal tempo senza contratto. Il tempo della cura, dei manicomi aperti e delle serate bruciate dal sale.
Con i capelli arruffati e i piedi scalzati dal sole. Era quella, la vita che avevo sempre portato alta, a modo mio, di nascosto, come non avevo potuto. Ora, quella che avete sempre nascosto parlava a modo suo.
Artisti. Circensi di vita. Anni luce dal dovere di aderire a una vita dorata per nome.
Non ho dubbi.
Quell’aria vile, meschina, bieca, l’unica conosciuta che aveva modellato il mio corpo, dentro si era fusa in me generosa, folle, e spaiata. Votata ai fori grezzi, le poesie nomadi e dal canto di strada.
È questa l’aria che mi avete lasciato, a vostra insaputa, disse Guenda sollevando le mani sul capo.
Non era stata occultata abbastanza.
Ciò che mi avete lasciato, prima di sposare una vita al scellerato dolore era una al gusto di anguria, una fresca, malandata, ma vostra.
Sono tornata indietro, indietro di almeno tredici vite, venti natali e diciottomila tramonti e ho preso per mano le vostre, prima che quella nascita le scambiasse per morte.
Gli inconsci si erano stretti l’un l’altro, uniti dall’unico filo buono, quello della vita propria, della sovversiva occupazione. Ce l’avevo avuta sempre davanti, ma era stata nascosta bene, dai mostri. Non sapevo che l’eredità degli arazzi nella polvere, chiusa in una manciata di diapositive di cui vergognarsi, era la mia. Quei genitori insigniti di potere e mai votati alla vita avevano preso il posto di due ragazzi che fino a quel momento avevano saputo il fatto loro, male e malandato, dolente e scomposto, ma singolo, proprio. Adottando la vita di Guendalina non si erano scoperti fragili e impossibilitati a dare amore, ma agenti primi, in prima linea del loro dolore. Si erano scambiati giusto in tempo per dare vita alla peggior caricatura possibile su chi ancora niente sapeva e niente avrebbe dovuto sobbarcarsi della vita, correndo veloce verso l’abisso. Un’adozione al contrario, verso chi, noncurante di sé, poteva facilmente uccidersi e uccidere.
Se la paura e la violenza si fossero per un momento distratte e avessero rimesso i piedi a bagno, nell’unica strada libera percorribile lontana dalla cattiveria, dalle genti torbide, lì col dito alzato in un continuo autostop sgangherato e vitale, sull’unica carreggiata possibile da intraprendere, avrebbero scoperto che sopravviveva ancora una buona dose di disordine e che ancora, prima del silenzio ermetico, del tappo della vera follia, si sarebbe potuto fare qualcosa.
Se si fossero concentrate un po’ meno su se stesse e più sulla vita che avevano davanti, avrebbero notato che imboccando con così tanta foga l’autostrada, si erano perse dei pezzi.
Avevano lasciato in eredità sulla strada bianca del passato, tra i ciottoli dell’autostop, oltre alla morte, ben altro che il potere della devastazione. Avrebbero visto sul ciglio, investite, le stesse scarpe consumate, gli stessi vestiti, gli stessi colori, gli stessi desideri e gli stessi nastri miei, occultati troppo presto, per dimenticarsi, per fare prima, per dimostrare di essere in grado di arrivare alla tomba in tempo, realizzati mai secondo la propria forma di felicità folle, strana e speciale tanto speciale da essere stati capaci di dare forma a una vita, ma secondo lo spazio occupato due fantocci, incatenati. Chiusi dentro una realizzazione altra, estranea, di cui non sapere che fare, tanto lontana e tanto diversa da sé.
Abbandonata nelle praterie, sgozzata dalle lame, l’eredità degli occhi e dello spirito aveva trovato me che la stavo cercando, con le trecce ancora intatte, le chitarre poggiate sul grano e quei vestiti lunghi e colorati, avevo trovato i miei genitori, li aveva trovati Guenda, persi tra quelle poche manciate di orme commosse nel fango.
Certo, insieme, sarebbe stato sicuramente più facile.
Ma non sarebbe stata la mia storia.
Mi aprii un chiosco di pancake al parco, per rendere uniche le merende di maggio. Con tutta la dolce variante di cui ero costituita, quella contraria, lontana da quella non vita. Era la vostra dimenticata, ora e qui, la mia sovversione, a rendere speciale e unica, la mia vita dai miei occhi, avvolti dal vostro antico, perduto sapore.

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