
Un femminismo, non l’unico.
Di lana e tenerezza
Ma io sussurro e mi parlano sopra

Filo che si può. Un ponte di cura del proprio dono, del limite, del proprio ruolo

Chi sono? perché lo faccio? Cosa dò in più agli altri, di ciò di cui dispongono già? Niente. Risuona nella mente.
Creando nuovi dove in cui fermare la fretta, terreni sicuri dove far crescere fiori e futuri agricoltori
Non è facile occuparsi di lana.
Di morbidezza.
Di dialogo.
Di parole.
È sole e nuvole. È grandine e ghiaccio su ogni foglia nuova.
Non è facile scegliere e pensare ogni giorno che ne valga la pena. Non è facile pensare di prendere le distanze, con fatica, con costanza, con cura quotidiana da un mondo d’odio.
Un mondo di grande sapere diffuso, di competenza su qualunque cosa, un mondo fatto di noi e di altri, di noi e di loro, di noi e di voi di noi e voi e voi e voi e voi che non siete noi. Perché noi siamo noi e voi non siete un cazzo.
Non è facile militare di parola.
D’amore. Non è festa.
È dolore, è solitudine, sono lacrime agli occhi, al cuore. A giorni alterni. Spessi come cemento, poca speranza e disillusione.
Chi sono? perché lo faccio? Cosa dò in più agli altri, di ciò di cui dispongono già? Niente. Risuona nella mente.
Ma chi me lo fa fare, realmente? non sono capace, non sono all’altezza, non sono studiata alle pretese di competenza della gente.
Sono ignorante. E sono spesso stupida. Tutto mi attraversa. Altro ignoro.
E mi stupisco.
Non ho nelle mie trame cosa pretende il mondo richiedente, disse un giorno davanti a me, in un abbraccio senza eguali, la lana bagnata di sale. Non ho la lotta dura che si sente al telegiornale, quella che va di moda sui post
Non ho il viso bello, un nome non ce l’ho, lo avevo, non l’ho mai voluto, non ho i followers, non ho la spada nella roccia, la soluzione per la felicità, non dispongo di una casa, di una famiglia, né di denaro, non ho amici, non ho un’aspirapolvere, non ho un natale né un’estate in cui sentirmi in pace, non ho la lotta delle pance, quella femminista delle masse, del rumore, del vociare. Che fortuna esiste, e solleva i marciapiedi, ma poi penso che i marciapiedi non possono restare così e penso che vadano sistemati. E puliti. E resi a tutti di nuovo fruibili.
No, non ce l’ho, non la dispongo e mi sento di sbagliare, mi sento a giorni alterni male, mi sento in difetto, dispero, lascio stare. Mi sento che ho un problema. Mi sento di non avere quelle competenze per sentirmi parte della lotta che richiede quella presenza piombata e gelida. A memoria i dati. Le leggi. Le sentenze. Le toghe le iniziative i benefits.
Eppure in piazza ci sono scesa anche io, ho gridato anche io, ho lottato anche io, a piedi nudi sull’asfalto perché serve. Serve farsi sentire, e farsi carico, e farsi megafono. Ma non mi basta. Il tempo è scaduto.
Non è la mia, non è la mia battaglia disse un giorno la lana in un angolo da sola.
Mi interessa con più urgenza conoscere la pelle di chi mi indossa, e ascoltarne i perché. Scrutarne e accoglierne l’orrore. Ne ho urgenza, di conoscere.
Mi interessa l’incastro, il nodo, l’intreccio, se si può. E se non si può una matassa, un pettine, una cruna la trovo, la creo, la invento. Lenire le spalle e capire. Io ho bisogno di capire e filo dopo filo creare ponti di salvezza, prima che sia troppo tardi, globi di palle di pelo da sputare con la paura mia accanto alla tua.
Nei fiumi di asfalto, nelle grandi associazioni dove essere noi ed essere loro, io e voi, voi e noi e aprire il divario in cui l’odio, olio bollente schizza le carni e i corpi, la lana non è mai riuscita a farsi accogliere. Presa per stupida. Per incompetente, per visionaria sorridente.
A giudizio preso. Senza sapere chi era lana, in vero.
La causa è la stessa per cui sentirsi parte, eppure, su sponde diverse, lana ancora oggi non ci riesce a essere di parte.
E l’odio aumenta. E parla alla pancia. E fomenta. E ancora olio si getta, oltre le alte mura del castello. Perché noi siamo qui e sappiamo. Voi siete lì e non sapete. Noi e loro.
Voi e gli altri.
I mostri siete voi, e noi vi combattiamo. Perché è questo il modo di combattere, e mi scendono le lacrime, mi sento male. Dove andiamo, se è così che ci vediamo?
Ma io non ci riesco a dividere le acque, riprese a singhiozzi la matassa di lana.
Non so camminare sui fiumi spezzare il pane. Fare il vino dal sangue. I pesci moltiplicare.
Ma so cosa sia crocifiggere e dilaniare.
Il femminismo a cui siamo abituati o urla o ti bolla incapace, ma se il femminismo, se fosse solo questo, perché è questa la soluzione con cui ci proteggiamo, non sarebbe mancante?
Cosa cambia in fondo dal patriarca maschilista che bolla tutti i giorni la donna di incapace? Fazione specchio opposta, che si esprime in egual modo. La stregua, la stessa, di un soldato in una guerra già persa, e di morti comuni prima della resa. Oppioidi nel sangue. Paura nella testa. Potere, parole dure, forza, distruzione. Ho vinto la causa. Ma lana risponde, ora si prega.
Ci sono donne più aggressive degli uomini e uomini più dolci delle donne. Odiano il maschilismo, ma molte combattenti lo sono diventate, maschiliste in gonnella.
Quello da cui vogliamo allontanarci, che critichiamo e su cui spariamo a zero, contro cui scendiamo in piazza e lottiamo, ci ha rese peggiori del nemico che combattiamo.
Perché nemici non ce ne sono mai stati.
Dove muoiono il dialogo, la speranza, la dolcezza? Del femminile sguardo cosa si è perso? presa, fianco, cosa è rimasto? Dov’è la tutela della vita, l’accoglienza, la delicatezza, la responsabilità, la presa di coscienza?
Il femminile dove è mancato?
Nelle grida armate con spocchia, nelle fazioni, nei noi e negli altri. Nei ripetuti noi non ci immischiamo, nei ripetuti gli uomini non cambiano.

La questione resta aperta.
Del femminile, cosa resta?
Femminile che negli uomini esiste, da sempre.
La questione si apre. Oltre l’ideologia, cosa resta?
Non con tutte le donne è possibile parlare di Donne. Di diritti, di amore, di speranza, di violenza, di doveri, di accoglienza del dolore.
Non è la mia causa, disse la lana. Forse il maschilismo con la gonna, non fa per me. Forse il femminismo coi pantaloni, di carri e di cliché. Non fanno per me.
Ed è dura da accettare, perché costruire ponti di amore in un mondo di veleni e campane nelle orecchie da suonare non è facile.
È coraggioso e non sempre mi riesce di non perdere il filo di lana più morbido, quello della tenerezza.
È coraggioso e fuorviante, per il mostro, essere abbracciato, si è soli molto soli, è da coraggiosi troppo coraggiosi, delle volte, anche per me.
Paura smarrimento e disillusione.
E pensare che davvero i baci in fronte alla paura non servano poi a niente, che le lotte non gridate non arrivino a niente. Che il femminismo sia solo uno e unico. Che l’odio verso l’uomo declinabile ed edulcorabile sia il più pieno e competente, ritorno gustoso per pance vuote.
Perché le femministe non odiano gli uomini, quante volte l’ho detto e quante volte l’ho sentito dire.
A volte è solo una grossa bugia. Più di a volte.
La marea grida, continua, e non vuole sentire ragioni. E quando la marea ha paura si chiude nell’ideologia.
Che esiste e salva tante vite. Ma resta aperto il ma, il ma della lana cotta.
A che prezzo?
E poi?
E fino a quando?
E dall’altra parte cosa resta? E se resta? Che succede?
Dall’altro versante dell’ideologia, dalla parte dell’amore, del quotidiano vivere, del barcamenarsi in questa vita, che succede?
Uomini e donne che vivono insieme, in sinergia non sempre, in rispetto sempre più raro, coabitanti la stessa terra, indispensabili l’uno all’altra, e l’una all’altro hanno bisogno di dipanare la propria anima con delicate mani. Con rispetto. E profondo lavoro. Né vincitori né vinti, cantava una canzone, ma non è vero. Quanto è bello e godurioso vincere a tutti i costi una supremazia dalla quale ci si schifa, ma che sposa dalla parte opposta, così opposta da toccarsi, quello zittire con le stesse parole. È una guerra sbagliata quella che divide il cuore tra due persone. Che non perdona. Che passa sui corpi, tutti i corpi. Che fa della donna animale da gabbia, che fa dell’uomo animale da gabbia. Due gabbie diverse, con le stesse sbarre. Sempre più ben fatte, sempre meglio agghindate.
Perché nessuno le possa scorgere.
E lana risponde.
Dove vuoi che vada io così?
E lana risponde.
Ferro non si ammorbidisce sbattendo sopra altro ferro, con altre spranghe, con altro freddo. Si torce col caldo, se apri se sposti se, se lavori sulla materia giorno e notte e lasci riposare altri giorni e altre notti.
Urlare noi e voi non può essere la mia casa, non è la causa di lana.
E chi vuole coccolarsi un po’ è il benvenuto.
Perché non insegniamo la lotta, se non fosse che ci troviamo tutti nello stesso luogo e una sola cosa ci importa, non sopra-vivere, ma attraversare e vivere il meno peggio delle vite possibili.
Chi sono? perché lo faccio? Cosa dò in più agli altri, di ciò di cui dispongono già? Niente. Risuona nella mente.
E spesso fa male. Fa male anche a me. Che non so urlare. E mi parlano sopra e mi dicono che non lo so fare. Probabilmente hanno anche ragione. Conosco i miei limiti. Fortunatamente.
E sussurro. E mi intrufolo.
Della voce bassa ne ho fatto scudo.
Dell’ascolto dialogo e perdono.
E va bene se non lo so fare.
Ma se ancora qualcuno rimane, su questa landa di scompartimenti e scettri, se qualcuno ancora c’è che non sa fare come me, gli tendo la mano.
Perché spesso, tutto il resto, è troppo anche per me.
Chi sono? perché lo faccio? Cosa dò in più agli altri, di ciò di cui dispongono già? Niente. Risuona nella mente.
Niente è la risposta.
E menomale.
Il senso di tutto, sta dentro questo niente:
Non doveva dare niente di più, a nessuno. Ma dare il suo. Che era più che abbastanza. Costruzione, disse lana. Non distruzione.

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