Tutto questo è grazie a te

Nessuno. Non c’era nessuno per cui quel grazie non fosse che indirizzato a me
Filo sospeso su un volo per Bergamo

La condanna della vita, quella urlata un’estate precisa, si trasformava, in un inverno di molti anni dopo ormai alle porte, in vittoria annunciata, solo per sé. Toccava farci i conti. Per la prima volta nella vita.

Così, a grandissima fatica iniziavo a capire.

Che per esistere non avrei dovuto per forza chiedere il permesso, perché la mia esistenza fosse degna di esistere. Che sarei esistita nei miei successi anche senza qualcuno accanto che ci avrebbe creduto insieme me, che mi avrebbe portato, supportato e sussurrato ce la fai sono qui con te, perché è un successo nostro. Condiviso, in due, in tre.

A grandissima fatica iniziavo a capire che dovevo imparare a prendermi la responsabilità dei miei successi.
Da sola.
Che ciò che sarebbe accaduto sarebbe accaduto solo grazie a me. Che me lo sarei dovuta andare a prendere da sola, quel bene, perché da sola era nato e da sola dovevo prendermelo, quel successo.
Mio.
Per me.

Ma io ero sempre stata così, brava a fare i conti con il male da cui trarre perle rare, brava a soffrire, a fare i conti con il dolore, con le disgrazie, i fallimenti, la violenza e le tragedie.
Non sapevo che farne della vittoria. Tutte quelle che avevo avuto nella vita non le avevo mai sentite mie.
Così a gran fatica stavo imparando a non delegare la felicità agli altri, se era la mia.
Stavo imparando, a gran fatica, a fare i conti con la vita.
Ero brava solo a soffrire, a farmi carico dei pesi del mondo, ma non a gioire di ciò che costruivo, e affezionata al mio ruolo di cristo sulla croce, relegavo la mia riuscita a qualcun altro.
Le colpe dovevano essere solo mie, le responsabilità del male le mie, ma il bene no, il bene lo conoscevo solo se condiviso.
Da solo non lo vedevo, non lo accettavo, non lo concepivo.
Se il male del mondo era tutto mio, il bene era reale solo se condiviso.

Le vittorie solo degli altri, le mie solo se posso dire che sono di altri.
Il dolore invece era egoista, era solo mio.
Così ho iniziato a capire a gran fatica che le ali per volare erano le mie, e non potevo dare la responsabilità di volare a qualcun altro. E dirgli vattelo a prendere, quel successo mio, che per vederlo mio facciamo che sia tuo e meno mio?
Stavolta no.
Dovevo scegliere da che parte stare. Se continuare a relegare o vivere.
Non me lo sapevo prendere io, il successo mio, senza dire sempre che era reale solo grazie a qualcuno
che non ero io.

© Storie di Lana
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